Schermi americani. Geografia e geopolitica degli Stati Uniti nelle serie televisive

a cura di Elena dell'Agnese e Fabio Amato
Unicopli, 2014

Le serie televisive sono state definite come la modalità di narrazione tipica della post-modernità. Nonostante il grande successo di pubblico, l'interesse crescente da parte di altri ambiti scientifici (come la sociologia o la semiotica) e la costante presenza da parte di settimanali e quotidiani, la ricerca geografica sui media non aveva ancora rivolto loro la propria attenzione. Il volume, frutto della collaborazione di una ventina di ricercatori e ricercatrici riuniti nell'ambito del Gruppo di Lavoro "Media e geografia", si sforza di colmare questa lacuna. Sono analizzate le serie televisive contemporanee di maggior successo, nella loro rappresentazione della geografia urbana degli Stati Uniti, delle relazioni sociali del paese e del discorso geopolitico internazionale.


Recensione (di Filippo Celata):

Ci sono momenti nei quali irrompe nel mondo molto ristretto della pubblicistica in lingua italiana di geografia un soffio di aria fresca che colma con un batter d’ali enormi distanze. E’ il caso paradigmatico di questo libro: un tentativo ancora abbozzato ma molto efficace di applicare lo sguardo geografico a una forma di prodotto culturale molto particolare e molto popolare: le serie TV. Di quali ‘distanze’ parlo? In primo luogo di quelle tra la pubblicistica geografica e il suo (potenziale) ‘pubblico’. Ci si lamenta spesso in Italia dell’assenza nella gran parte delle librerie di una sezione dedicata alla geografia. Io credo ci si debba lamentare piuttosto del contenuto di tale sezione, quando c’è: moltissimi libri di testo, e poco altro. D’altro lato nelle librerie, soprattutto negli ultimi anni, la geografia è ovunque, se intendiamo con ‘geografia’ una forma di conoscenza e di analisi che è potenzialmente applicabile, ed è sempre più spesso applicata da geografi e non geografi, ai temi più disparati. Perché non anche, quindi, alle serie TV? Nell’affrontare questo tema il libro compie due operazioni indispensabili: sedurre anche i non specialisti, e in particolare le schiere sempre più ampie di coloro che come me di serie TV non possono più fare a meno, e costruire ponti verso altre prospettive di studio.
In secondo luogo, mi riferisco alla ‘distanza’ tra la geografia italiana e il dibattito internazionale. Nell’ambito di quest’ultimo è più che attivo da anni un filone di studio di geografia (politica) cosiddetta “popolare” che nasce da lavori pionieri su, per esempio, gli immaginari geografici di “Capitan America” o più in generale dall’analisi critica del discorso geografico che si (ri)produce al di fuori dell’accademia e che, per dirla con Derek Gregory, “viaggia attraverso le pratiche sociali più diverse ed è implicato in una miriade di topografie di potere e sapere” (Geographical Imaginaries, 1994, p. 11). All’interno di questo filone, che si inserisce nella cosiddetta geografia dei media, gli studi sulle serie TV hanno potenzialmente ampia cittadinanza, ma sono ancora sporadici. Un libro come questo, per dirla tutta, a livello internazionale o, se volete, in lingua inglese, ancora non esiste. I metodi sono quelli tipici dell’analisi critica del contenuto. Quest’ultimo viene quindi scandagliato sia in quanto riproduttore di rappresentazioni spaziali, immaginari geografici, narrazioni di luoghi e di relazioni tra luoghi, sia in quanto produttore di significato, identità, cultura, spazio. I piani sono sostanzialmente tre; in primo luogo, e soprattutto, quello macro delle grandi narrazioni geopolitiche, alle quali sono dedicati di fatto la gran parte dei capitoli; in secondo luogo quello delle micro-geografie del potere che impongono categorie, norme, posizionamenti e significati; infine, a livello, per così dire, meso, il modo in cui lo spazio americano (e non) viene narrato, descritto, ri-letto, ri-organizzato. Ogni capitolo riguarda una o al massimo due serie TV prodotte negli Stati Uniti, e in particolare quelle più note e che coprono il più ampio ventaglio di generi diversi: il trono di spade, walking dead, lost, under the dome, NCIS, criminal minds, the americans, the good wife, scandal, fringe, depserate housewifes, modern family, breaking bad, dexter, weeds, treme, mad men, ugly Betty, homeland, the big bang theory. In questo, l’obiettivo è anche inquadrare le serie nello specifico contesto che le ha prodotte e nel quale vengono fruite. Le ricerche presentate si muovono inoltre sullo sfondo di, da un lato, una progressiva globalizzazione della produzione e della fruizione televisiva, la frammentazione dei linguaggi, dei generi, dei pubblici, la trasformazione delle modalità di fruizione e la contaminazione tra linguaggi e media diversi; d’altro lato, gli autori non possono evitare di entrare nel merito di trasformazioni e eventi che stanno radicalmente modificando gli Stati uniti e il loro ruolo nel mondo. In merito a quest’ultimo aspetto, il libro discute estesamente come nelle serie TV contemporanee si riproponga, in molti casi, la solita rappresentazione degli USA come poliziotto ‘buono’ chiamato inevitabilmente a risolvere tutti i problemi del mondo e perfettamente in grado di farlo. In altri casi, che sono senza dubbio i più interessanti e anche, spesso, le serie TV di migliore qualità, emerge invece un potere pesantemente riflessivo, vulnerabile, corrotto e corruttibile, in crisi, e quindi debole, insicuro, incerto, fallace, impotente. Tutto ciò suscita e mi ha suscitato diverse domande, alle quali in alcuni capitoli si tenta di fornire una risposta. In che modo, per esempio, questo immaginario viene recepito nei dintorni di quei centri di potere che sono molto meno riflessivi, più mascolini, diretti e senza sfumature, che sono poi quei centri di (contro-)potere con i quali la politica americana si confronta e si scontra all’esterno - dal terrorismo jihadista, ai vari ‘stati canaglia’, fino alla Russia di Putin – e al proprio interno - dai Tea party a Donald Trump. Dal punto di vista delle micro-geografie del potere, sono molto interessanti le discussioni che il libro ospita sulle rappresentazioni delle dinamiche di genere, delle minoranze etniche e degli esclusi in genere, disabili, ecc. In che misura tali rappresentazioni ‘normalizzano’ le relazioni socio-spaziali, nel bene - ovvero quando la diversità è del tutto indifferente rispetto al racconto – o nel male – ovvero quando queste rappresentazioni non fanno che rafforzare categorie e stereotipi tradizionali, o creare nuove forme di normatività? E quanto distanti sono, in questo senso, le intenzioni di autori e sceneggiatori da un lato, e l’effettivo risultato dall’altro? E infine, ma soprattutto: in che modo i diversi piani macro, meso e micro si legano tra di loro, ovvero quale dialettica si instaura tra scenari geopolitici, produzione e organizzazione dello spazio, pratiche, identità e discorso? A quest’ultima domanda il libro non fornisce una risposta. Non era nelle intenzioni dei curatori. E non è inoltre per niente semplice. Si tratta, infatti, della sfida centrale che la geopolitica popolare e tutta la geografia critica deve affrontare. Il merito di questo libro è di affrontare questa sfida di petto e con una leggerezza che, a ben vedere, è soltanto apparente. Come tutte le buone letture, suscita molte più domande di quanto fornisca risposte. Quelle che fornisce non sono, in ogni caso, per nulla consolatorie.