Watching Vesuvius: A History of Science and Culture in Early Modern Italy

di Sean Cocco
Chicago University Press, 2012

Mount Vesuvius has been famous ever since its eruption in 79 CE, when it destroyed and buried the Roman cities of Pompeii and Herculaneum. But less well-known is the role it played in the science and culture of early modern Italy, as Sean Cocco reveals in this ambitious and wide-ranging study. In Watching Vesuvius, Cocco argues that this investigation and engagement with Vesuvius was paramount to the development of modern volcanology. He then situates the native experience of Vesuvius in a larger intellectual, cultural, and political context and explains how later eighteenth-century representations of Naples—of its climate and character—grew out of this tradition of natural history. Painting a rich and detailed portrait of Vesuvius and those living in its shadow, Cocco returns the historic volcano to its place in a broader European culture of science, travel, and appreciation of the natural world.

Recensione (di Bruno Vecchio):
Il volume di Sean Cocco si colloca nel filone degli studi i quali – dal particolare punto di vista dello storico – indagano l’impatto culturale che le entità e gli eventi naturali hanno sulla società, sul bordo fra “natural places and ideas” (p. 3). Si tratta di un filone che ha goduto recentemente di un’accentuata fortuna, grazie a un cultural turn del quale in storiografia è prodotto rilevante il volume di Simon Schama, Landscape and memory (1995), non a caso a più riprese citato dall’autore (e da lui considerato riferimento culturale di fondo insieme a Clarence Glacken e a Fernand Braudel; pp. 17-18). La scoperta o riscoperta – non in teoria, ma nella pratica della ricerca – del fatto che la natura può essere oggetto di studi culturali altrettanto bene che di studi naturalistici, ha gradualmente conquistato l’attenzione dei lettori anche non specialisti di storia o scienze sociali; ed è presso questo pubblico – oltre che ovviamente presso gli accademici – che anche il volume di Cocco può avere successo.
Così come per il paesaggio, anche qui è presentato un caso eminente in cui la natura suscita nella società idee il cui presentarsi ed evolversi aiuta a meglio comprendere la società stessa.
Se questo – come sembra innegabile – è lo scopo del volume, non è strano che le vicende che più strettamente riguardano la storia della scienza non bastino a Cocco. L’autore lo lascia trasparire continuamente; ma si vedano anche alcuni passi specifici; come quello in cui contesta il punto di vista dello storico del vulcanismo Sigurdsson sulla scarsa importanza dell’eruzione vesuviana del 1631 ai fini del progresso della vulcanologia (p. 22): storia della scienza e storia dei contesti culturali trovano in effetti per Cocco la loro ricomposizione in una realtà unica (p. 3).
L’area considerata dallo studio è quella di Napoli, non solo in quanto luogo prossimo al Vesuvio (e dunque in linea di principio legato ad esso da quella comunanza che deriva dalla coesistenza, e potenziale osservatorio privilegiato su esso) ma anche in quanto capitale di un importante regno e una delle maggiori città d’Europa nel periodo considerato; dunque città a partire dalla quale si forma nella “Repubblica delle lettere” la rappresentazione collettiva del vulcano, e con essa la rappresentazione d’insieme dei vulcani del Sud Italia, con le metonimie cui essi danno luogo.
Il periodo considerato è quello dal tardo Rinascimento all’età del pieno Illuminismo; questo periodo è riferito dall’autore ai due estremi 1631-1779, contrassegnati da due eruzioni vesuviane.. 
Nel 1631 ha luogo un parossismo, disastroso più o meno come quello del 79 d. C. (anche se meno famoso), e altrettanto improvviso, in quanto sopravviene dopo una lunga quiescenza del vulcano. A tacere d’altro, il 17 dicembre tre lahar discesi dalla montagna seppelliscono probabilmente 6000 persone solo nella città di Torre del Greco, il cono all’epoca esistente sparisce - trascinato dai lahar fino al mare - e la cima collassa a 500 piedi più in basso (pp. 65-67).
Il parossismo del 1779 è invece praticamente innocuo, tanto da dar luogo al coevo, satirico libretto Spaventosissima descrizione…, di Ferdinando Galiani (pp. 231-233). A sua volta l’arco temporale oggetto dell’esame di Cocco è un sottoperiodo di un più ampio periodo 1631-1944, durante il quale il Vesuvio ha mostrato attività quasi continua.
Gli estremi del 1631 e 1779 sono quindi dettati da criteri sociali e non vulcanologici: pur essendo contestabili come lo è qualunque periodizzazione, valgono comunque – scrive Cocco - a illustrare efficacemente l’evoluzione degli atteggiamenti culturali nei confronti del Vesuvio (pp. 226-228).   
Volendo inquadrare sinteticamente tale evoluzione, lo si può fare indicando come condizione di partenza quella per cui la conoscenza dei fenomeni vulcanici procede dal sistema aristotelico. Tale sistema presenta tuttavia in questo campo particolari lacune (dovute alle scarse opportunità di approfondimento che sui vulcani aveva avuto il filosofo; p. 144), sicché è agevole alterarlo con precisazioni basate sull’empiria (è quanto fa ad esempio Giorgio Agricola già nel 1556; p. 28). D’altronde le teorizzazioni sottese al vulcanismo - e in generale alle scienze della terra - sono manifestamente meno rischiose dal punto di vista dell’ortodossia cristiana rispetto a quelle astronomiche, in quanto non chiamano in causa la complessiva costituzione dell’universo (pp. 99-100, 170-172): il che rende il dibattito meglio passibile di innovazione, e lo renderebbe ancor più se fosse agevole in proposito accumulare adeguate osservazioni empiriche e trarne corrette induzioni; cosa che nel XVI e XVII secolo non è, o non è abbastanza (pp. 101-102).
E però per definire la condizione culturale dell’epoca da cui parte il volume si devono chiamare a soccorso altri elementi. Tale quello per cui all’inizio del periodo considerato l’osservazione scientifica (in questo caso: l’osservazione del vulcano) è in misura variabile, ma comunque rilevante, sostanziata di conoscenza storica: “historia and causa were fundamentally linked” (p. 83; ma cfr. anche pp. 96-97). Il “discorso” sul vulcano è anche – se non soprattutto - rilettura delle fonti documentarie sul vulcano nel passato (a partire dalla celeberrima lettera di Plinio il Giovane a Tacito; p. 31). Questo atteggiamento si attenuerà gradualmente, ma è inizialmente forte. E si attenuerà certo in base all’infittirsi delle osservazioni rese possibili dalla plurisecolare attività, oltre che del Vesuvio, di altri vulcani, vicini (si vedano gli studi di G. A. Borelli [1679] sull’Etna; pp. 156-165) e d’oltremare; ma anche in base a un altro processo, che segna la modernità, e che è benissimo osservabile alla fine del periodo considerato da Cocco.
Si tratta del farsi strada progressivo della convinzione, di filiazione galileiana – e qui esposta con le parole di Hevelius, Selenographia, 1647 - che l’empiria stessa non è sufficiente alla ricostruzione dei fatti, perché i processi solo parzialmente lasciano intravvedere tracce nei fatti medesimi; pertanto l’osservazione delle evidenze è insufficiente, è un processo conoscitivo mediato (p. 149). Ne consegue che la testimonianza degli “antichi” vicini e lontani, doppiamente mediata, è doppiamente insufficiente.    
Confidiamo che questi accenni siano sufficienti a percepire che il libro di Cocco, attraverso il succedersi o giustapporsi dei modi di guardare il Vesuvio, costruisce una narrazione di come evolve la cultura a Napoli fra XVI e XVIII secolo;  e in particolare una narrazione di come il dibattito napoletano diviene progressivamente parte di un dibattito scientifico-culturale alla scala europea: si vedano in particolare le pp. 179-181, 188-191, 205-209. Non ci è possibile ovviamente qui entrare nei particolari di questa narrazione; ma non possiamo passare sotto silenzio almeno un ulteriore aspetto di essa: le metonimie che riguardano il vulcano.
Emerge dalla narrazione di Cocco un ricco ventaglio di simbolismi attribuiti al Vesuvio. L’utilizzo della natura e dei suoi fenomeni nei discorsi politici dell’Occidente cristiano è noto forse soprattutto nella versione, per cui la catastrofe è castigo per i peccati degli uomini (dove per catastrofe si intende eruzione, terremoto, inondazione, ma anche peste o rivolta); e Watching Vesuvius conferma anche a Napoli la presenza del fenomeno (per esempio pp. 129-133). Ma già nel 1620 a tale immagine contraddice quella che propone (in una lettera di anonimo indirizzata al nuovo viceré Borgia) il paragone tra le afflizioni del “corpo politico” di Napoli e quelle della natura (p. 47). E infine, con un completo rovesciamento dei significati tradizionali, Camillo Tutini, nel suo pamphlet scritto dall’esilio di Roma dopo il fallimento della rivolta di Masaniello (1647), “ingaggia” l’ira del vulcano per asserire la legittimità della ribellione (pp. 127-134): una posizione che avrà ampia fortuna nel XVIII secolo. Ma va aggiunto che qui Cocco colloca sapientemente questo proporsi collettivo di metonimie vulcaniche in un ancor più ampio ventaglio di immagini, quelle che designano Napoli (e non solo il suo vulcano) come entità simbolica: Napoli come Arcadia (l’immagine è di Giovanni Pontano; p. 34), come luogo paradisiaco, e nel contempo come “luogo abitato da diavoli” (topos di cui Croce fa risalire l’origine già al  XIV secolo; pp. 11-12); Napoli città vera erede in Occidente della “libertà” ateniese, e comunque scrigno di virtù repubblicane (così nelle proposizioni riferibili alla secentesca Accademia degli Oziosi; pp. 119-124), ovvero città che rischia di regredire nel cammino della civiltà, tornando alla condizione dei bruti di Giambattista Vico (così P. Napoli Signorelli, 1784; pp. 226-227).  
Nel complesso, Cocco effettua una lettura significativa della vicenda narrata, basata su un’originale utilizzo delle fonti e un’attenta considerazione degli studi già esistenti.
Chi scrive è portato a cogliere molte analogie tra la vicenda narrata da Cocco (almeno per il XVIII secolo) e quella narrata da Augusto Placanica nel volume Il filosofo e la catastrofe (1985); libro nel quale, analogamente a quanto Cocco ha fatto, si investiga – per quello stesso Mezzogiorno d’Italia che ospita i vulcani, e in riferimento al 1783 – l’impatto di un altro cataclisma, il grande terremoto della Calabria, sulle coscienze e sulle visioni del mondo.