La storia del mondo in dodici mappe

di Jerry Brotton
Feltrinelli, 2013

Nel corso della storia le carte geografiche hanno modellato la nostra visione del mondo e il posto che vi occupiamo. In questo libro, Jerry Brotton sostiene che, lungi dall'essere meri strumenti della scienza, le mappe sono inevitabilmente descrizioni parziali e soggettive, intimamente legate ai sistemi di potere, all'autorità e alla creatività di tempi e luoghi particolari. Questo libro analizza il significato di dodici mappe del mondo a partire dalle rappresentazioni mistiche della storia antica e per finire con le immagini di derivazione satellitare contemporanee. Ricrea gli ambienti e le circostanze in cui queste carte sono state fatte, mostrando come ciascuna di esse trasmetta un'immagine estremamente personale del mondo. Brotton rivela come ogni mappa abbia tanto influenzato quanto riflesso gli eventi contemporanei e come, leggendole, si possano meglio comprendere gli universi che le hanno prodotte.

Recensione (di Tiziano Moretti):
Il pensiero decifra il mondo, il linguaggio e i segni lo descrivono. Quest’asserzione di ordine filosofico vale anche per la cartografia. Le mappe e le carte geografiche offrono un’interpretazione del mondo, ne raffigurano i limiti e mostrano le ambizioni degli uomini che le hanno realizzate. Il sogno di una carta geografica in grado di rappresentare perfettamente la realtà è, infatti, destinato a naufragare, al pari dell’utopia di quei cartografi narrati da Borges che, per creare la mappa perfetta del loro impero, ne crearono una che coincideva con l’impero stesso. La riflessione sulla cartografia è il filo conduttore del libro di Jerry Brotton, docente di studi rinascimentali a Londra che invita il lettore a scoprire alcuni dei più significativi episodi di questa disciplina sullo sfondo degli eventi politici e culturali delle diverse epoche storiche.  
La storia narrata da Brotton prende le mosse da lontano, dalla tavoletta babilonese di Sippar (databile tra il 700 e il 500 a.C.) che, secondo gli studiosi, costituisce la più antica testimonianza di una mappa sopravvissuta alle ingiurie del tempo.  Da quest’oggetto doveva scaturire un messaggio ben chiaro: Babilonia era posta al centro del mondo, il luogo di un potere sicuro per coloro che se ne riconoscevano partecipi, ma minaccioso per tutti coloro che ne risultavano esclusi. Scandite da altrettante chiavi di lettura, l’autore presenta in successione alcune delle creazioni della cartografia, disciplina posta sì, tra arte e scienza, ma ben attenta anche alle esigenze politiche. La dimensione scientifica è rappresentata dall’opera di Tolomeo (II sec. d. C.), il frutto più maturo della scienza alessandrina: una carta intesa a fornire un’immagine matematica del mondo e che ambisce a rappresentare tutto l’ecumene conosciuto. L’opera di Al-Idrīsī, esaminata in seguito, ci porta nella splendida Palermo dei re normanni del XII secolo e viene presentata, giustamente, sotto il segno dello scambio. In quell’epoca, infatti, la città siciliana era un crocevia di culture la cui importanza, tuttavia, stava per tramontare a causa delle Crociate che stavano distruggendo la tradizionale unità delle genti del Mediterraneo. La dimensione della fede è rappresentata dalla celebre mappamundi di Hereford, realizzata attorno al 1300, uno specchio della visione del mondo del Cristianesimo medievale. Raffigurazione allo stesso tempo cronologica e spaziale, la mappa poneva Gerusalemme al centro della rappresentazione quale principio e fine di tutta la vicenda umana, l’aspirazione dell’uomo del Medioevo di una meta degna al di fuori della vicenda terrena. Sotto il segno delle aspirazioni imperiali è la tappa successiva che conduce il lettore verso le vicende dei grandi stati asiatici. È il caso della cosiddetta mappa di Kangnido, di origine coreana, che intendeva rappresentare l’intero mondo e che riporta, ai suoi margini, anche l’Europa. La mappa originale risaliva agli inizi del XV secolo, ma le copie che ci sono giunte sono più recenti e sono databili attorno al 1470. Si tratta di una data significativa: la gloriosa stagione delle esplorazioni marittime cinesi era ormai tramontata mentre la piccola Europa, posta ai bordi della mappa coreana, stava per imporsi come la grande protagonista della storia mondiale.
Il Rinascimento e la rivoluzione scientifica segnano l’epoca d’oro della cartografia europea. La curiosità intellettuale che muoveva gli studiosi di fronte alle straordinarie scoperte che si susseguivano e le necessità del colonialismo rendevano, infatti, necessaria una scienza cartografica sempre più precisa e raffinata.
A questo proposito, la figura di Martin Waldseemüller è presentata sotto il segno della scoperta. Nella colta cerchia del cenacolo umanistico di Saint-Dié-des-Vosges, questo studioso realizzò, nel 1507, la prima carta in cui figurava il nome America attribuito alle terre da poco scoperte nel lontano occidente. Un gesto audace che riconosceva l’esistenza di un nuovo mondo, sconosciuto agli antichi,  in attesa di essere esplorato e consegnato alla scienza. L’opera di Diogo Ribeiro, cartografo portoghese anticipa, invece, le aspirazioni dell’età della globalizzazione. La rivalità tra i due grandi imperi portoghese e spagnolo rendeva necessaria, infatti, la produzione di carte sempre più precise per delimitare le zone d’influenza in un mondo che, di fatto, andava ormai assumendo una dimensione globale.
Una delle personalità più famose della storia della cartografia, Gerardo Mercatore, è descritta da Brotton sotto il segno dell’aspirazione alla tolleranza. Perseguitato per la sua adesione alla Riforma, Mercatore ha lasciato la più famosa rappresentazione cartografica della storia che da lui prende il nome. Strumento fondamentale per la navigazione, la carta di Mercatore non fu, però, l’unico frutto delle fatiche di questo studioso dalla vita travagliata. Mercatore, infatti, consacrò anni di lavoro per realizzare una grande cronologia degli eventi storici, come se, ad una sostanziale rilettura dello spazio geografico, ambisse far corrispondere un’analoga rivisitazione delle vicende storiche. Si trattava, probabilmente, della volontà di offrire una visione globale del genere umano, al di sopra di ogni particolarismo, destinata a mostrare l’assurdità delle lotte religiose dell’epoca e promotrice, piuttosto, dell’idea di tolleranza.
Se Ribeiro e Mercatore avevano disegnato i contorni di un mondo per molti aspetti già globale, la figura di Joan Blaeu è presentata all’insegna delle esigenze del profitto della nuova classe borghese emergente. Questo cartografo ufficiale della Compagnia delle Indie orientali olandese operava nel momento di massimo splendore della fiera repubblica delle Sette Province. La precisione della sua produzione cartografica non rappresentava soltanto l’esito del progresso tecnico-scientifico del XVII secolo, ma segnava anche la necessità di ridefinire i contorni del mondo in base a precisi interessi di ordine economico e commerciale. La costruzione  dello stato assoluto e la successiva affermazione dello spirito nazionalista segnano lo sfondo per la tappa successiva del lungo viaggio di Brotton lungo la storia della cartografia. È la volta della grande carta della Francia le cui vicende si intrecciano a quelle della celebre famiglia Cassini.
Le ultime tappe conducono il lettore attraverso le convulse vicende del XX secolo. L’età dell’Imperialismo poneva al centro della riflessione degli studiosi la questione geopolitica. Se la Gran Bretagna era il centro indiscusso del più grande impero mondiale fondato sul dominio degli oceani, la possibilità di un potente impero terrestre aveva il suo baricentro sull’Eurasia, dove la Russia zarista vantava un indiscusso primato. Era questo il parere di Halford Mackinder che con la sua teoria del “perno geografico della storia” ha espresso probabilmente l’idea più famosa della geopolitica. Anche dopo il crollo dell’Impero degli zar, infatti, le idee di Mackinder continuarono a suscitate interesse. Dalle ceneri dell’antica Russia imperiale era emersa la nuova potenza sovietica che, proprio nell’area compresa tra Europa e Asia poteva contare sull’esclusivo possesso di molteplici risorse naturali e sul controllo di posizioni strategiche di straordinaria importanza nel contesto della Guerra fredda. Frutto di questo particolare assetto geopolitico è la carta di Peters che, cercando di superare il tradizionale eurocentrismo dei cartografi e degli storici, proponeva una lettura della superficie terrestre in grado di riflettere le aspirazioni dei popoli del Terzo Mondo.
L’ultimo capitolo del libro, dedicato all’esame delle nuove frontiere offerte da Google Earth si interroga sui problemi posti dal controllo dell’informazione. Se le carte geografiche sono state da sempre anche strumento di potere, oltre che di conoscenza, il controllo dell’informazione globale potrebbe delinearsi come una delle sfide del XXI secolo. Il lungo percorso di Brotton si chiude interrogandosi sulla possibilità che le nuove tecnologie informatiche riescano a realizzare una carta perfettamente fedele al mondo in grado di attuare il sogno dei cartografi narrati da Borges. L’autore non esclude questa prospettiva, ma mantiene un fondo di scetticismo. Qualsiasi mappa futura, sostiene Brotton, sarà sempre il frutto di un’interpretazione particolare del mondo perché questo è il paradosso della cartografia. Non è possibile conoscere la realtà del nostro pianeta senza una mappa, ma nessuna mappa sarà mai in grado di rappresentare il  mondo in maniera risolutiva.