Rethinking life at the margins: The assemblage of contexts, subjects, and politics

a cura di Michele Lancione
Routledge, 2016

Experimenting with new ways of looking at the contexts, subjects, processes and multiple political stances that make up life at the margins, this book provides a novel source for a critical rethinking of marginalisation. Drawing on post-colonialism and critical assemblage thinking, the rich ethnographic works presented in the book trace the assemblage of marginality in multiple case-studies encompassing the Global North and South. These works are united by the approach developed in the book, characterised by the refusal of a priori definitions and by a post-human and grounded take on the assemblage of life. The result is a nuanced attention to the potential expressed by everyday articulations and a commitment to produce a processual, vitalist and non-normative cultural politics of the margins.


Recensione (di Alberto Vanolo): 

Ho scoperto solo di recente l’esistenza di un genere editoriale note come ‘coffee table books’: si tratta di libri destinati e immaginati per essere soltanto sfogliati, e non letti. Deve quindi essere esteticamente attraenti, leggeri, con contenuti alla moda che possano apparire sofisticati ma anche alla portata di tutti, capaci di stuzzicare due chiacchiere nel breve tempo di un caffè. Esistono classifiche di libri del genere, che includono titoli (assolutamente desiderabili ai miei occhi) come ‘Miscellany of curious maps’, ‘Out of the box: the rise of sneaker culture’ o ‘Green: a field guide to Marijuana’. Il libro di Michele Lancione non figura in nessuna di queste classifiche, e mai lo farà. Rethinking life at the margins è infatti l’antitesi di un libro da tavolino: è un testo difficile e intricato, che tocca argomenti scomodi e complessi, alcuni dei quali neppure troppo alla moda.
Sono abbastanza sicuro che Michele Lancione non sarà offeso del fatto che, fra le righe, ho suggerito l’idea che il libro sia un mattone. Da un lato, penso ne sia cosciente: il cuore teorico del libro, come discuterò più avanti, è profondamente legato ai lavori di autori come Deleuze e Guattari (i due nomi svettano nell’indice analitico al fondo del volume in termini di riferimenti di pagina) e penso sia superfluo aggiungere altro. Dall’altro lato, mi piace pensare che la metafora del ‘mattone’ possa aprirsi ad interpretazioni anticonvenzionali: un mattone è anche un oggetto solido, ben squadrato, denso e pesante. I bordi sono taglienti: può servire per costruire una casa, ma anche per rompere una finestra. E per dirla tutta, per un libro accademico, essere un mattone non è una colpa, soprattutto in uno scenario in cui non mancano libri ‘facili’, con poche idee e argomenti alla moda.
Il mattone curato da Michele Lancione, che non è neppure un vero mattone in termini di peso (236 pagine non sono troppe, ma devo dire che ho ricevuto solo la versione pdf, quindi non posso descrivere la sensazione fisica del contatto con la carta) ruota attorno ad alcune parole chiave; per la precisione, penso che tre concetti costituiscano i cardini ideali del testo, trasversali al ricco panorama di capitoli e casi studio. Il primo è, ovviamente, quello di marginalità, ed è evidente fin da subito come l’idea di margine sia qui declinata in maniera molto ampia: non si parla soltanto di soggetti e spazi ‘marginalizzati’ o caratterizzati dalla condizione di marginalità, ma anche di processi di soggettivazione, negoziazione di identità, movimenti di posizionalità, ribaltamenti di prospettive fra centro e margine. In maniera molto stimolante, si persegue un approccio trasversale alle varie branche della nostra disciplina, coniugando idee, concetti, dibattiti e metodi propri della geografia culturale, urbana, economica e politica, nonché di discipline molto vicine come antropologia e sociologia. In questo modo, l’idea di marginalità si manifesta in tutta la sua complessità: non esiste una condizione di marginalità che prescinda dalle prospettive, dalle ideologie e dai presupposti teorici dell’osservatore, e proprio in questo senso i vari capitoli del libro presentano esempi e riflessioni estremamente eterogenee.
La seconda parola chiave che associo al libro è ‘etnografia’. Anche se questo termine non figura direttamente nel titolo, e anche se non tutti i capitoli del volume si sviluppano intorno a questa metodologia, si parla comunque moltissimo di osservazione, esperienza, campo, vita. La riflessione sulla marginalità proposta nel testo mira, infatti, alla costruzione di un ‘approccio vitalista’ che coniughi i contributi dei lavori più tradizionali (prospettive strutturaliste, post-coloniali e analisi empiriche ‘situate’) con l’apertura a una visione sociale della vita tesa a riconoscere il ruolo immanente del non-umano (per esempio gli oggetti materiali), del più-che-umano (per esempio le ibridazioni tecnologiche), del divenire e del mutare. Da un punto di vista teorico, questa sensibilità interpretativa è evocata attraverso il riferimento al concetto di assemblaggio, espressione derivata dalla filosofia che costituisce il terzo concetto chiave del volume. L’idea di assemblaggio (secondo alcuni una metafora, secondo altri un vero e proprio apparato concettuale) ha alimentato complessi dibattiti teorici nelle scienze sociali, fra le quali anche la geografia, contribuendo a destabilizzarne le basi teoriche più convenzionali. Dal punto di vista metodologico, l’approccio vitalista proposto nel libro si collega fortemente a idee di geografia del quotidiano, di partecipazione all’esperienza del margine, di immersione nella politica della marginalità. In questo senso, il libro abbonda di descrizioni in prima persona, note di ricerca, foto scattate dagli autori, coraggiose riflessioni autobiografiche, elementi ironici e poetici. Chiamerei tutto questo ‘etnografia’, pur conscio del fatto che, da un punto di vista metodologico, si potrebbe disquisire se si tratti davvero di ricerca etnografica nel senso più ortodosso del termine. E proprio in questo senso, ritengo che il testo offra un importantissimo contributo alla riflessione metodologica sugli strumenti della ricerca in geografia e anche, in qualche misura, sulle cosiddette ‘metodologie creative’ e sui vari ‘modi’ innovativi di raccontare la geografia di cui si discute oggi molto nell’ambito della geografia culturale.
I vari contributi di questo libro sono certamente molto differenti per stile, oggetto e prospettive, rendendo davvero difficile proporre una sintesi in poche righe. Ritengo che l’eterogeneità dei capitoli e degli sguardi sulla marginalità proposti sia senza dubbio un punto di forza del libro: rinunciando a ogni pretesa di esplorare tutte le possibili declinazioni della marginalità e a ogni tentativo di proporre una ‘grande teoria’ di questa categoria concettuale, i vari contributi offrono sguardi e frammenti estremamente preziosi, vivi e fantasiosi, dando forma alle tre sezioni che compongono il volume. La prima parte, ‘ricontestualizzazione’, ospita i capitoli scritti da Kavita Ramakrishnan, Francesca Governa e Matteo Puttilli, Mark Tirpak, Abdoumaliq Simone. La seconda, dal titolo ‘risoggettivazione’, comprende i lavori di Tawahanga Mary-Legs Nopera, Tatiana Thieme, Gaja Maestri e Jean.Baptiste Lanne. La terza parte, ‘ripoliticizzazione’, presenta i contributi di Francisco Cafate-Faria, Eszter Krasznai Kovács, Elisabetta Rosa, Cheryl Gilge. Infine, un testo provocatorio di Darren J. Patrick conclude il volume.
Sulla scia della lettura del libro, mi piace provare a immaginare che anche questa mia breve recensione possa in qualche misura aspirare a un certo grado di vitalismo situato e relazionale. In questo senso, mi azzardo a scrivere un paio di note di ordine personale, forse inutili e fuori luogo, o forse, al contrario, importanti nel definire la posizionalità del narratore di questo breve testo. Simpatizzo molto per l’autore di questa collezione; anche se non è un amico nel senso convenzionale del termine, lo considero una persona cara, dotata di franchezza, coraggio e sensibilità, tutte qualità che si percepiscono facilmente nella lettura del suo testo. In questo senso, probabilmente ho iniziato a leggere bendisposto, e il fatto che conoscessi qualche altro autore del volume non può che aver amplificato ulteriormente questa mia predisposizione emotiva. Durante la lettura, coglievo e apprezzavo i riferimenti a dibattiti e autori che conosco e che sono vicini al mio bagaglio di conoscenze di studioso. In alcuni passaggi del volume mi sentivo un po’ distante dalle speculazioni teoriche di filosofi come Deleuze e Guattari, ma proprio nel capitolo finale si prende gioco di questi quadri teorici e della loro complessità con sensibilità e creatività. Il punto è: si tratta di un libro che risuona completamente con la mia posizione di lettore. Non vi è nessuna frizione nel gioco di posizionalità fra autore e lettore nel rapporto fra Rethinking Life at the Margins e Alberto Vanolo, e in questo senso mi è sorto un interrogativo legato all’immaginario della centralità e della marginalità: è forse anche questa mia narcisistica sensazione di sentirmi appropriato alla lettura, e quindi non ‘fuori-luogo’ e ‘ai margini’, a spingermi ad apprezzare questo libro?