a cura di Paolo Giaccaria e Claudio Minca
University of Chicago Press, 2016
"Lebensraum" the entitlement of legitimate Germans to living space."Entfernung" the expulsion of undesirables to create empty space for German resettlement. During his thirteen years leading Germany, Hitler developed and made use of a number of powerful geostrategical concepts such as these in order to justify his imperialist expansion, exploitation, and genocide. As his twisted manifestation of spatial theory grew in Nazi ideology, it created a new and violent relationship between people and space in Germany and beyond. With "Hitler's Geographies" editors Paolo Giaccaria and Claudio Minca examine the variety of ways in which spatial theory evolved and was translated into real-world action under the Third Reich. They have gathered an outstanding collection by leading scholars, presenting key concepts and figures as well exploring the undeniable link between biopolitical power and spatial expansion and exclusion
Recensione (di Chiara Giubilaro):
La cella del carcere di Landsberg in cui Karl Haushofer avrebbe donato una copia della Politische Geographie di Ratzel ad Adolf Hitler, ispirando così il XIV capitolo del suo Mein Kampf e i principi di una politica estera che di lì a poco avrebbe violentemente segnato il profilo d’Europa, rappresenta probabilmente uno dei più celebri topoi intorno a cui è stata costruita la storia del pensiero geopolitico moderno. Al di là della veridicità di questo e di altri analoghi episodi, quel che è certo è che all’indomani della fine della guerra il progetto della Geopolitik tedesca è divenuto oggetto di una vera e propria operazione di damnatio memoriae che ha portato, specie nella letteratura anglofona, ad una sua capillare quanto duratura rimozione dal dibattito. Come a testimoniare, una volta di più, che così come la storia anche la geografia non è indenne dalle riscritture dei vincitori.
Hitler’s Geographies, il volume curato da Paolo Giaccaria e Claudio Minca per The University of Chicago Press (2016), prende le mosse da quel vuoto teorico e bibliografico in cui è stata confinata la riflessione sulle geografie del Terzo Reich e a partire da qui tenta di riaprire uno spazio di dibattito che troppo a lungo è stato inibito o negato. Gettare le basi per una storia culturale degli spazi reali e immaginati che hanno attraverso il progetto nazista è l’intenzione dei due curatori, nella convinzione che un’attenta ricognizione della sua natura eminentemente geografica potrà non soltanto arricchire gli itinerari di ricerca esistenti, ma anche aprirne di inediti. La conquista del Lebensraum e i progetti di espansione verso est, l’aspirazione a pianificare spazi urbani rigidamente organizzati secondo funzioni e gerarchie, la funesta costruzione di una bio-geo-politica e la sua pretesa di spazializzare razze e corpi, e ancora colonie, ghetti, campi sono infatti solo alcuni degli esempi di una certa ossessione per la spazialità che ha caratterizzato il progetto nazista e contribuito a tracciarne le direttrici.
Se l’obiettivo è di riattivare uno spazio di discussione intorno alle geografie del Terzo Reich, il metodo scelto per perseguirlo consiste in un’attenta costruzione di ponti e collegamenti capaci di riallacciare orizzonti disciplinari, filoni bibliografici e questioni teoriche, e di istituire un vero e proprio campo di tensioni intorno all’oggetto della ricerca. Le geografie del nazismo, sembrano suggerire gli autori, non possono essere un esclusivo affare dei geografi. L’interdisciplinarietà viene così ad avere un ruolo costitutivo nella formazione del volume, pervadendo assetti, metodologie e intenti. L’introduzione, nella sua versione sdoppiata, suggerisce fin dalle prime pagine che il dialogo fra geografi e storici risponde ad una precisa modalità di indagine più che ad un esercizio di stile accademico. Sul fronte geografico, Paolo Giaccaria e Claudio Minca forniscono nel primo capitolo una ricognizione critica della letteratura esistente, ripercorrendo cinque correnti di riflessione che hanno segnato il dibattito sulle geografie del Terzo Reich e tentando di formulare una teoria spaziale al crocevia di tre tensioni dialettiche: fra geopolitica e biopolitica, fra topografia e topologia, fra ideologia e pratica spaziale. Il controcanto storico a firma di Dan Stone esamina invece il ruolo decisivo che le categorie geografiche hanno avuto nella storiografia sull’olocausto, soffermandosi su come una fitta produzione di spazi, reali e immaginati, abbia scandito il progetto nazista: dal ricorso ai campi da parte dei suoi esecutori al confinamento nei ghetti nella prospettiva delle vittime, dalla museificazione dei luoghi della memoria ai regimi spaziali soggiacenti le pratiche di genocidio.
Così come l’introduzione, anche il resto del volume ha un impianto duale. I primi otto contributi sono dedicati alle “Third Reich Geographies”, le teorie e i concetti spaziali che hanno variamente attraversato il nazismo, e sono divisi in due blocchi. Nel primo, “Biopolitics, Geopolitics, and Lebensraum”, gli autori indagano il ruolo della geografia accademica tedesca dai tempi del Secondo Reich all’ascesa del nazional-socialismo. L’influenza dei geografi dell’università di Berlino nei progetti di espansione coloniale tedeschi durante il Secondo Reich e la Repubblica di Weimar (Jürgen Zimmerer), il ruolo degli ideologi Albrecht Penck e Wilhelm Volz nella conquista dello spazio orientale e la sostanziale continuità con le immaginazioni spaziali che avrebbero poi sostenuto i piani di Himmler e Hitler (Gerhard Wolf), la controversa influenza della Geopolitik tedesca di Friedrich Ratzel e Karl Haushofer sulla formazione della Weltanschauung nazista e i fattori di discontinuità occultati nella propaganda statunitense del dopoguerra (Mark Bassin), infine le immaginazioni bio-geografiche che hanno sostenuto il programma di domesticazione inversa ideato dai due fratelli zoologi Lutz e Heinz Heck (Clemens Driessen e Jamie Lorimer) consentono al lettore di mettere in prospettiva storica le geografie naziste e di cogliere la complessità dei legami genealogici che sono loro sottesi. I successivi quattro contributi, riuniti nella sezione “Spatial Planning and Geography in the Third Reich”, si concentrano invece sul ruolo della pianificazione urbana e regionale nell’ideologia nazista. La relazione fra calcolo matematico e prassi politica nella formulazione delle leggi di Norimberga e nella ridefinizione della categoria geopolitica di Lebensraum (Stuart Elden), il programma tedesco di riorganizzazione spaziale e la ricezione del modello di Walter Christaller nella teoria e nelle pratiche della pianificazione (Mechtild Rössler), le diverse possibilità di coinvolgimento negli apparati nazisti di cui le vicende biografiche e accademiche di Walter Christaller e August Lösch e dei loro modelli sono testimonianza (Trevor Barnes) e i piani di riorganizzazione urbana e territoriale dell’impero proposti da Gottfried Feder (Joshua Hagen) restituiscono con vividezza il peso che la pianificazione degli spazi ha avuto nelle immaginazioni e nelle pratiche del regime.
“Geographies of the Third Reich” è il titolo scelto per la seconda parte del volume, che si propone di esplorare alcuni degli spazi attraverso cui si sono materialmente articolate le geografie del Terzo Reich. Anche in questo caso, la struttura è bipartita. Attraverso i primi quattro contributi viene ripercorsa in prospettiva geografica l’esperienza dell’olocausto: le dimensioni spaziali delle pratiche di genocidio naziste e la loro rilettura in chiave bio-geo-politica (Paolo Giaccaria e Claudio Minca), le geografie della ghettizzazione e i complessi legami fra confinamento spaziale e segregazione razziale (Tim Cole), le geografie delle responsabilità nei confronti delle pratiche di persecuzione e sterminio (Michael Fleming), le oscillazioni dei toponimi di alcuni dei luoghi simbolo del genocidio nazista e la loro rinegoziazione nelle topografie della memoria (Andrew Charlesworth). Gli ultimi tre contributi spostano infine il fuoco sulle microgeografie della memoria e sul ruolo decisivo della spazialità nella costruzione del ricordo, della testimonianza e della rappresentazione del trauma. Una rilettura in chiave geografica del documentario di Lanzmann Shoah (Richard Carter-White), una riflessione sui rapporti fra spazio e memoria attraverso il racconto delle deportazioni da parte dei sopravvissuti (Simone Gigliotti) e l’analisi di uno dei luoghi del trauma e delle sue sorti sospese fra memorializzazione e stigmatizzazione (Katherine Fleming) danno prova delle potenzialità che uno sguardo geografico sulla storia e sulla memoria può dischiudere.
Hitler’s Geographies è un libro necessario per almeno due ragioni. La prima è che interviene su uno dei momenti più opachi e frammentati della storia del pensiero geopolitico e attraverso una densa mobilitazione di discipline, categorie e approcci riesce a farne un potente spazio di opportunità dal punto di vista teorico e metodologico. Infatti, nonostante l’ampia e articolata varietà dei contributi o forse proprio in ragione di essa, rimane in chi legge la sensazione che la costruzione di una storia culturale della spazialità del Terzo Reich sia solo all’inizio. La seconda ragione, invece, trascende i confini spaziali e temporali della Germania nazista e arriva a toccare una delle questioni cruciali del nostro tempo. Indagare criticamente il ruolo produttivo degli spazi nelle meccaniche di potere, svelare le modalità attraverso cui il governo degli spazi diviene anche governo dei corpi e delle vite, è un esercizio che non può in alcun modo essere relegato ad un altrove distante e ormai passato. Riflettendo sulla relazione di bando e sulla sacrificabilità della vita, Giorgio Agamben scriveva che “è questa struttura di bando che dobbiamo imparare a riconoscere nelle relazioni politiche e negli spazi pubblici in cui ancora viviamo” (Agamben, 1995, p. 123). Hitler’s Geographies, mostrandoci fino a che punto regimi di potere e assetti spaziali possano irretire i corpi e annientare le vite, ci spinge a riflettere sui legami spesso sommersi fra biopolitica e geopolitica e ad interrogare le geografie di potere in cui siamo quotidianamente immersi. Specie in un momento in cui campi ed eccezioni tornano a costellare i nostri spazi e i nostri tempi.
University of Chicago Press, 2016
"Lebensraum" the entitlement of legitimate Germans to living space."Entfernung" the expulsion of undesirables to create empty space for German resettlement. During his thirteen years leading Germany, Hitler developed and made use of a number of powerful geostrategical concepts such as these in order to justify his imperialist expansion, exploitation, and genocide. As his twisted manifestation of spatial theory grew in Nazi ideology, it created a new and violent relationship between people and space in Germany and beyond. With "Hitler's Geographies" editors Paolo Giaccaria and Claudio Minca examine the variety of ways in which spatial theory evolved and was translated into real-world action under the Third Reich. They have gathered an outstanding collection by leading scholars, presenting key concepts and figures as well exploring the undeniable link between biopolitical power and spatial expansion and exclusion
Recensione (di Chiara Giubilaro):
La cella del carcere di Landsberg in cui Karl Haushofer avrebbe donato una copia della Politische Geographie di Ratzel ad Adolf Hitler, ispirando così il XIV capitolo del suo Mein Kampf e i principi di una politica estera che di lì a poco avrebbe violentemente segnato il profilo d’Europa, rappresenta probabilmente uno dei più celebri topoi intorno a cui è stata costruita la storia del pensiero geopolitico moderno. Al di là della veridicità di questo e di altri analoghi episodi, quel che è certo è che all’indomani della fine della guerra il progetto della Geopolitik tedesca è divenuto oggetto di una vera e propria operazione di damnatio memoriae che ha portato, specie nella letteratura anglofona, ad una sua capillare quanto duratura rimozione dal dibattito. Come a testimoniare, una volta di più, che così come la storia anche la geografia non è indenne dalle riscritture dei vincitori.
Hitler’s Geographies, il volume curato da Paolo Giaccaria e Claudio Minca per The University of Chicago Press (2016), prende le mosse da quel vuoto teorico e bibliografico in cui è stata confinata la riflessione sulle geografie del Terzo Reich e a partire da qui tenta di riaprire uno spazio di dibattito che troppo a lungo è stato inibito o negato. Gettare le basi per una storia culturale degli spazi reali e immaginati che hanno attraverso il progetto nazista è l’intenzione dei due curatori, nella convinzione che un’attenta ricognizione della sua natura eminentemente geografica potrà non soltanto arricchire gli itinerari di ricerca esistenti, ma anche aprirne di inediti. La conquista del Lebensraum e i progetti di espansione verso est, l’aspirazione a pianificare spazi urbani rigidamente organizzati secondo funzioni e gerarchie, la funesta costruzione di una bio-geo-politica e la sua pretesa di spazializzare razze e corpi, e ancora colonie, ghetti, campi sono infatti solo alcuni degli esempi di una certa ossessione per la spazialità che ha caratterizzato il progetto nazista e contribuito a tracciarne le direttrici.
Se l’obiettivo è di riattivare uno spazio di discussione intorno alle geografie del Terzo Reich, il metodo scelto per perseguirlo consiste in un’attenta costruzione di ponti e collegamenti capaci di riallacciare orizzonti disciplinari, filoni bibliografici e questioni teoriche, e di istituire un vero e proprio campo di tensioni intorno all’oggetto della ricerca. Le geografie del nazismo, sembrano suggerire gli autori, non possono essere un esclusivo affare dei geografi. L’interdisciplinarietà viene così ad avere un ruolo costitutivo nella formazione del volume, pervadendo assetti, metodologie e intenti. L’introduzione, nella sua versione sdoppiata, suggerisce fin dalle prime pagine che il dialogo fra geografi e storici risponde ad una precisa modalità di indagine più che ad un esercizio di stile accademico. Sul fronte geografico, Paolo Giaccaria e Claudio Minca forniscono nel primo capitolo una ricognizione critica della letteratura esistente, ripercorrendo cinque correnti di riflessione che hanno segnato il dibattito sulle geografie del Terzo Reich e tentando di formulare una teoria spaziale al crocevia di tre tensioni dialettiche: fra geopolitica e biopolitica, fra topografia e topologia, fra ideologia e pratica spaziale. Il controcanto storico a firma di Dan Stone esamina invece il ruolo decisivo che le categorie geografiche hanno avuto nella storiografia sull’olocausto, soffermandosi su come una fitta produzione di spazi, reali e immaginati, abbia scandito il progetto nazista: dal ricorso ai campi da parte dei suoi esecutori al confinamento nei ghetti nella prospettiva delle vittime, dalla museificazione dei luoghi della memoria ai regimi spaziali soggiacenti le pratiche di genocidio.
Così come l’introduzione, anche il resto del volume ha un impianto duale. I primi otto contributi sono dedicati alle “Third Reich Geographies”, le teorie e i concetti spaziali che hanno variamente attraversato il nazismo, e sono divisi in due blocchi. Nel primo, “Biopolitics, Geopolitics, and Lebensraum”, gli autori indagano il ruolo della geografia accademica tedesca dai tempi del Secondo Reich all’ascesa del nazional-socialismo. L’influenza dei geografi dell’università di Berlino nei progetti di espansione coloniale tedeschi durante il Secondo Reich e la Repubblica di Weimar (Jürgen Zimmerer), il ruolo degli ideologi Albrecht Penck e Wilhelm Volz nella conquista dello spazio orientale e la sostanziale continuità con le immaginazioni spaziali che avrebbero poi sostenuto i piani di Himmler e Hitler (Gerhard Wolf), la controversa influenza della Geopolitik tedesca di Friedrich Ratzel e Karl Haushofer sulla formazione della Weltanschauung nazista e i fattori di discontinuità occultati nella propaganda statunitense del dopoguerra (Mark Bassin), infine le immaginazioni bio-geografiche che hanno sostenuto il programma di domesticazione inversa ideato dai due fratelli zoologi Lutz e Heinz Heck (Clemens Driessen e Jamie Lorimer) consentono al lettore di mettere in prospettiva storica le geografie naziste e di cogliere la complessità dei legami genealogici che sono loro sottesi. I successivi quattro contributi, riuniti nella sezione “Spatial Planning and Geography in the Third Reich”, si concentrano invece sul ruolo della pianificazione urbana e regionale nell’ideologia nazista. La relazione fra calcolo matematico e prassi politica nella formulazione delle leggi di Norimberga e nella ridefinizione della categoria geopolitica di Lebensraum (Stuart Elden), il programma tedesco di riorganizzazione spaziale e la ricezione del modello di Walter Christaller nella teoria e nelle pratiche della pianificazione (Mechtild Rössler), le diverse possibilità di coinvolgimento negli apparati nazisti di cui le vicende biografiche e accademiche di Walter Christaller e August Lösch e dei loro modelli sono testimonianza (Trevor Barnes) e i piani di riorganizzazione urbana e territoriale dell’impero proposti da Gottfried Feder (Joshua Hagen) restituiscono con vividezza il peso che la pianificazione degli spazi ha avuto nelle immaginazioni e nelle pratiche del regime.
“Geographies of the Third Reich” è il titolo scelto per la seconda parte del volume, che si propone di esplorare alcuni degli spazi attraverso cui si sono materialmente articolate le geografie del Terzo Reich. Anche in questo caso, la struttura è bipartita. Attraverso i primi quattro contributi viene ripercorsa in prospettiva geografica l’esperienza dell’olocausto: le dimensioni spaziali delle pratiche di genocidio naziste e la loro rilettura in chiave bio-geo-politica (Paolo Giaccaria e Claudio Minca), le geografie della ghettizzazione e i complessi legami fra confinamento spaziale e segregazione razziale (Tim Cole), le geografie delle responsabilità nei confronti delle pratiche di persecuzione e sterminio (Michael Fleming), le oscillazioni dei toponimi di alcuni dei luoghi simbolo del genocidio nazista e la loro rinegoziazione nelle topografie della memoria (Andrew Charlesworth). Gli ultimi tre contributi spostano infine il fuoco sulle microgeografie della memoria e sul ruolo decisivo della spazialità nella costruzione del ricordo, della testimonianza e della rappresentazione del trauma. Una rilettura in chiave geografica del documentario di Lanzmann Shoah (Richard Carter-White), una riflessione sui rapporti fra spazio e memoria attraverso il racconto delle deportazioni da parte dei sopravvissuti (Simone Gigliotti) e l’analisi di uno dei luoghi del trauma e delle sue sorti sospese fra memorializzazione e stigmatizzazione (Katherine Fleming) danno prova delle potenzialità che uno sguardo geografico sulla storia e sulla memoria può dischiudere.
Hitler’s Geographies è un libro necessario per almeno due ragioni. La prima è che interviene su uno dei momenti più opachi e frammentati della storia del pensiero geopolitico e attraverso una densa mobilitazione di discipline, categorie e approcci riesce a farne un potente spazio di opportunità dal punto di vista teorico e metodologico. Infatti, nonostante l’ampia e articolata varietà dei contributi o forse proprio in ragione di essa, rimane in chi legge la sensazione che la costruzione di una storia culturale della spazialità del Terzo Reich sia solo all’inizio. La seconda ragione, invece, trascende i confini spaziali e temporali della Germania nazista e arriva a toccare una delle questioni cruciali del nostro tempo. Indagare criticamente il ruolo produttivo degli spazi nelle meccaniche di potere, svelare le modalità attraverso cui il governo degli spazi diviene anche governo dei corpi e delle vite, è un esercizio che non può in alcun modo essere relegato ad un altrove distante e ormai passato. Riflettendo sulla relazione di bando e sulla sacrificabilità della vita, Giorgio Agamben scriveva che “è questa struttura di bando che dobbiamo imparare a riconoscere nelle relazioni politiche e negli spazi pubblici in cui ancora viviamo” (Agamben, 1995, p. 123). Hitler’s Geographies, mostrandoci fino a che punto regimi di potere e assetti spaziali possano irretire i corpi e annientare le vite, ci spinge a riflettere sui legami spesso sommersi fra biopolitica e geopolitica e ad interrogare le geografie di potere in cui siamo quotidianamente immersi. Specie in un momento in cui campi ed eccezioni tornano a costellare i nostri spazi e i nostri tempi.