Il territorio bene comune

a cura di Alberto Magnaghi
Firenze University Press, 2012

La conversione ecologica e territorialista come risposta strategica alla crisi è il tema di fondo di questo libro. «Il ritorno al territorio» come valorizzazione dei beni comuni patrimoniali (ambientali, insediativi, paesaggistici, socioculturali) che fondano l'identità e gli stili di vita di ogni luogo della terra, richiede: di riconnettere saperi frammentati in una scienza del territorio che affronti in modo integrato i problemi del degrado socio-territoriale e ambientale; di elaborare nuovi indicatori e politiche del benessere e della felicità pubblica, fra cui il paesaggio come misura della qualità dei mondi di vita delle popolazioni; di accrescere gli strumenti di democrazia locale e di federalismo solidale; di restituire centralità al mondo rurale nel produrre cibo sano, salvaguardia idrogeologica, risanamento ecologico, qualità urbana e paesaggistica, economie integrate.

Recensione (di Marcello Tanca): 

Il premio Nobel per l’economia conferito nel 2009 a Elinor Ostrom per i suoi studi sui commons ha avuto il non trascurabile merito di portare in primo piano un tema che riceve oggi, più che mai, un’attenzione del tutto particolare da parte delle scienze sociali, tra le quali i beni comuni si impongono come il concetto fondante di un nuovo paradigma o filone di pensiero: quello che nella teorizzazione di una terza sfera, irriducibile alla dicotomia classica di ‘pubblico’ e ‘privato’, individua la via maestra per superare le aporie della separazione tra economia, diritto e politica. Il territorio bene comune, a cura di Alberto Magnaghi, che raccoglie alcune delle relazioni e degli interventi al Congresso di fondazione della Società dei territorialisti e delle territorialiste (Firenze, 1-2 dicembre 2011), sposa questa tendenza che qui, nell’agile spazio di poco più di centocinquanta pagine, si connette all’idea di un “pensiero del territorio”, esito della ricomposizione di una frammentazione dei saperi sempre più impraticabile e nociva. A dimostrazione del fatto che la prima conseguenza da trarre, se si riconosce il carattere di “bene comune” al territorio, è proprio quella della necessità di un confronto multi- e interdisciplinare fra discipline, convergono qui riflessioni e contributi di studiosi di pianificazione (come lo stesso Magnaghi), geografi (Massimo Quaini e Giuseppe Dematteis), urbanisti (Giancarlo Paba e Giancarlo Ferraresi), filosofi (Luisa Bonesio e Ottavio Marzocca), storici (Rossano Pazzagli e Piero Bevilacqua) e archeologi (Giuliano Volpe). Questa duplice veste discorsiva autorizza l’uso del termine paradigma (in senso kuhniano): laddove questo era, per Thomas Kuhn, una certa immagine scientifica del mondo (teoria) ma anche, e non secondariamente, un certo modo di condurre materialmente il lavoro scientifico (prassi), allo stesso modo tanto la conoscenza quanto la gestione sostenibile del “territorio bene comune” richiedono, per dirla con Magnaghi, l’attivazione di «interazioni e confronti con altre discipline», la realizzazione di «‘grappoli’ multidisciplinari», di «azioni intersettoriali, progetti integrati, luoghi di ricomposizione fra saperi contestuali e disciplinari» (p. 25). La stessa espressione “ritorno al territorio”, che ricorre e attraversa i diversi interventi, non va intesa nelle sue varie declinazioni come ripetizione o nostalgia, bensì come ragionevole desiderio di riconquista e sfida progettuale che si snoda lungo tre grandi assi tematici strettamente interconnessi.
Il primo, che concerne la definizione di bene comune, esplora l’applicazione di questa categoria al territorio e accomuna i saggi di Magnaghi (Le ragioni di una sfida), della Bonesio (La questione epistemologica e il linguaggio: territorio, luogo, paesaggio), di Quaini (Territorio, paesaggio, beni comuni) e Ferraresi (Elementi per una definizione dell’approccio territorialista al tema del «comune»). Come osserva Giorgio Ferraresi, «La questione dei beni comuni (e del «comune» più in generale) è, nell’attuale contesto nazionale ed internazionale, un nodo critico centrale in ogni percorso ‘alternativo’ di uscita dallo stato di crisi del sistema dominante di organizzazione economica, civile e territoriale; tema radicale e pervasivo nei diversi mondi teorici e di pratica sociale, soggetto a molte visioni ed interpretazioni anche assai differenziate» (p. 131). Concepire il territorio come bene comune significa non accontentarsi di leggerlo mediante categorie come quelle di “merce” o di “bene pubblico”: il patrimonio ad un tempo materiale e cognitivo di culture, saperi e paesaggi che lo caratterizza, definendone l’identità, deve necessariamente restare collettivo e indiviso. Ciò significa che in quanto base materiale e culturale ad alta complessità di vitale importanza per la riproduzione sociale, esso non può essere concepito come inerte supporto di mere funzioni produttive e ricondotto al suo valore strumentale, funzionale all’uso che decidiamo di farne, così come non può essere alienato, venduto o usucapito: il territorio ha cioè il valore di un patrimonio autonomo rispetto all’uso che se ne fa, e risulta perciò inalienabile, non eterodiretto né riconducibile alla proprietà, sia essa pubblica o privata.

Il secondo asse di ricerca emerge principalmente (ma non esclusivamente) nel saggio di Pazzagli (Il rapporto città-campagna tra agricoltura e paesaggio), e focalizza la propria attenzione sul mondo rurale e sull’agricoltura, intendendo quest’ultima come esperienza, essenziale e duratura, di territorializzazione. Dalla constatazione che città e campagna non dialogano più e che il loro rapporto – che ha costituito un tratto caratteristico della storia del nostro paese – è stato messo in crisi dai processi di industrializzazione e globalizzazione, nasce l’esigenza di ristabilire ‘una nuova alleanza’ che ne ricomponga il rapporto attraverso un fitto dialogo in cui emergano, nella loro centralità, i temi della sovranità alimentare e delle filiere virtuose, delle relazioni energetiche e del ripopolamento delle zone rurali. Anche in questo caso, un’espressione come “ritorno alla terra” non allude ad un passato a cui guardare in maniera nostalgica e inattiva, ma si carica di un valore progettuale, teso al futuro, che intende esprimere la centralità del mondo rurale nel momento stesso in cui prendono forma problemi che sono irresolubili con categorie strettamente urbane – specie là dove “urbanità” diviene sinonimo di megacity, sprawl e città diffusa, e non di recupero dell’ars aedificandi (che era anche capacità di governo razionale del territorio). Scrive Pazzagli: «Ricreare una coscienza comunitaria tra città e campagna, con forme di gestione nelle quali ci sia consapevolezza del bene comune, implica inevitabilmente anche una crescita della cittadinanza attiva, tornando ad essere alla fine un problema di democrazia e di partecipazione» (p. 130).

Questa citazione ci permette di creare un ponte verso il terzo asse di ricerca, presente negli interventi di Dematteis (Generativeness, condivisione e ben-vivere territoriale), Paba (Felicità e territorio. Benessere e qualità della vita nella città e nell’ambiente) e Marzocca (Democrazia locale, federalismo solidale, cittadinanza attiva): vi si modulano i temi della democrazia partecipativa e della qualità della vita come valori aggiunti e irrinunciabili di ogni buona pratica territoriale – e, con essi, il principio per cui lo statuto dei luoghi non costituisce affatto una dimensione separata o marginale rispetto alle nostre vite, ma incide, e in profondità, su di esse. Si tratta dell’alternativa, ricordata da Paba, tra un benessere che può essere concepito come context free o context specific: avulso e indipendente dalle circostanze oppure strettamente correlato alla qualità della vita e dei luoghi. Il territorialista andrà in cerca degli “indizi di felicità pubblica”, che individuerà, via via, nell’ascolto dei cittadini e degli attori locali, nella diffusione di forme di cittadinanza attiva e di pratiche inclusive, nella produzione sociale di beni pubblici e nella valorizzazione dei saperi dei destinatari e delle conoscenze locali (si pensi, giusto per limitarci ad un es. che ha assunto ormai un valore simbolico, al caso della TAV in Val di Susa). Il nodo centrale è dato, qui, dal concetto di generativeness (si veda in particolare l’intervento di Dematteis), che individua la capacità di un territorio di riprodursi grazie ad un codice di trasformazione condiviso e, quindi, l’inseparabilità di ‘riproduzione’ (di sapori, varietà socioculturale, beni, ricchezza) e ‘condivisione’ (che implica anche, come evidenzia Marzocca, un recupero delle differenze e dei “territori marginali”): «non si tratta soltanto – scrive Dematteis -  di tollerarsi a vicenda, ma di attivare scambi vantaggiosi tra co-abitanti, portatori di esigenze e di valori diversi nella costruzione del territorio come bene comune» (p. 86).

Occorre mettere in campo quelle capacità progettuali che sono forse l’unico antidoto alla deriva di un territorio quotidianamente assediato dal cemento e dall’assenza di vere e proprie politiche organiche, capaci di ragionare in termini di lungo periodo senza accontentarsi di vivere alla giornata – la presa d’atto dello stato, certo non felice, dell’esistente, è il primo passo di un percorso non facile ma urgente e inevitabile. Questo testo, e la Società da cui scaturisce, costituiscono dunque, più che un punto d’arrivo, un buon punto di partenza.