Cinema, ambiente e territorio

a cura di Elena dell'Agnese e Antonella Rondinone
Unicopli, 2011

È noto che il cinema costituisce un veicolo fondamentale nella costruzione dei nostri immaginari geografici, nella elaborazione di immagini forti di luoghi desiderati o temuti, di topofilie, di stereotipi paesaggistici. Meno analizzata è invece la funzione che il cinema di intrattenimento può svolgere come veicolo per l'informazione ecologica, per la sensibilizzazione nei confronti delle tematiche ambientali, in qualità di monito educativo nei confronti delle prassi quotidiane. Tuttavia, il cinema spesso si ispira proprio a tematiche di carattere ambientale, enfatizza il timore di catastrofi legate a questo o quell'evento "naturale", oppure presenta possibili futuri gravidi delle conseguenza della cattiva gestione delle risorse. Ma anche quando non mette in primo piano l'ambiente, il cinema parla d'ambiente, per il semplice fatto di avere una location, e costituisce in tal modo una risorsa per la costruzione di una sensibilità nei confronti dei beni ambientali di un dato territorio.

Recensione (di Claudio Cerreti): 
«Il rapporto fra cinema e geografia è sempre più stretto», come esordisce (p. 7) l'introduzione che le curatrici hanno premesso a questo volume, e che meriterebbe di essere largamente riportata. Un rapporto sempre più stretto, evidentemente, perché i geografi vanno sempre più frequentemente esaminando il linguaggio cinematografico come se fosse «una delle diverse possibili modalità di rappresentazione del ‘geo’» (ibidem). E dunque non perché, come si potrebbe anche pensare, il cinema di per sé si sia avvicinato al discorso «geografico» (in senso disciplinare) né perché la natura del cinema sia mutata. Tant'è che a chi scrive – e che da una dozzina d'anni utilizza sistematicamente il discorso cinematografico come mezzo di «sollecitazione» della sensibilità dei suoi studenti in Geografia – capita di fare ricorso indifferentemente a opere cinematografiche dei più vari generi, di età molto diverse, di provenienze disparate e comunque e sempre rigorosamente non documentarie. (È meglio che lo confessi fin d'ora: i documentari – tanto più se «geografici» – mi annoiano non poco; e, per di più, non me ne fido affatto. Notazione non irrilevante, accingendomi a commentare un libro che mette insieme il cinema con l'ambiente e il territorio, e che valga di avviso per chi legge).
Quello che è accaduto è soprattutto che noi geografi ci siamo da qualche tempo accorti che esiste anche il cinema, che il cinema produce discorsi che espongono sempre e comunque una dimensione spaziale/geografica, che questi discorsi hanno una carica performativa difficilissima da valutare, ma certamente molto vivace, e che è dunque opportuno prenderli in conto – foss'anche solo a fini didattici (in realtà, proprio la precedente produzione di Elena dell'Agnese mostra che il discorso filmico può dare assai di più che specimina didascalici) – se in quanto geografi siamo interessati a individuare «discorsi sul mondo» che ci avvicinino a comprenderlo.
Ora, non è forse questa la sede per discutere del senso della rappresentazione dello spazio geografico (o dell'ambiente o del territorio) per come emerge da un qualsiasi film; e quindi, a monte, delle modalità interpretative da mobilitare per cogliere quel senso. Ma riscontriamo che, più o meno sotterraneamente, chi si occupa di cinema e geografia finisce quasi sempre per accreditare le rappresentazioni filmiche (di ambienti e territori) di una qualche quota di «verità», da confrontare con altre quote di «verità» derivate da altri discorsi e da altre rappresentazioni riferibili agli stessi ambienti e territori. Procedimento che non convince. Il problema di fondo, mi pare, è che ogni rappresentazione è altrettanto «vera» quanto «falsa», e la questione non può essere (è inutile che sia) discutere sulla quota di «verità» incorporata in una qualsiasi rappresentazione, in sé o rispetto a un'altra: l'esercizio, benché interessante, rischia di lasciare con un pugno di mosche in mano. Il problema sostanziale mi pare che sia piuttosto l'idea – che in quanto tale è «vera» semplicemente perché «è» – elaborata, in base a quella rappresentazione, dal soggetto che ne è stato spettatore/recettore. È notevole e anche divertente notare che la Monument Valley non si trova nel Texas ma nello Utah, anche se Sentieri selvaggi dichiara che si trova proprio nel Texas; più rilevante, però, è forse che lo spettatore inconsapevole (e tutti siamo spettatori inconsapevoli, a un qualche livello) si «fa un'idea» del Texas su quella base, e inversamente la «capacità [del cinema] di produrre immaginari geografici» (Dell'Agnese, p. 17). (Di qui e da una serie di considerazioni che non è possibile ricordare ora, la resistenza a considerare davvero «utile» la rappresentazione cinematografica, anche solo come esempio didattico).
Il rischio che si corre, in sostanza, parlando di cinema e «immaginari geografici», è di non parlare tanto del cinema, del linguaggio cinematografico, del discorso filmico in rapporto con la costruzione di una qualche «geografia», ma di trattare del «discorso» in sé – come, appunto, forma di rappresentazione che veicola anche clichés ambientali, visioni geopolitiche, ruoli di genere, modelli di consumo, discorsi socio-politici e via dicendo. A questo punto, la differenza tra la narrazione cinematografica e la narrazione letteraria, ad esempio, si riduce a una differenza di grado e di forma, dove la narrazione tramite immagini è in genere molto più incidente (perché meno mediata) rispetto alla narrazione verbale. Aspetto rilevantissimo, sul quale peraltro molto si è riflettuto già in un passato ormai remoto (pensiamo anche solo alle analisi del discorso pubblicitario di mezzo secolo fa e oltre), ma che non coglie alcuni degli elementi costitutivi del discorso filmico rispetto al discorso letterario. Per dirne una: il montaggio. Il montaggio «consuma» il tempo – serve esattamente a questo, a rendere più compatta la narrazione. Ma nello stesso modo, e necessariamente, «consuma», «mangia» anche lo spazio in cui la vicenda narrata si svolge. Di conseguenza, costruisce una geografia decurtata, sintetica, condensata, scorcia le relazioni spaziali mentre abbrevia le relazioni cronologiche, pone «a contatto» spazi che non lo sono e non possono esserlo, svisa i punti di vista, ordina la narrazione dell'«ambiente» – quale che esso sia, anche l'interno di una stanza – secondo una logica che tiene conto dei fini della narrazione in sé, e non dei fini di una eventuale «geografia»: una narrazione che spesso punta a generare «meraviglia» (come la poesia), ma non «coerenza» né continuità. Lo spettatore ne ricava una geografia, certamente; e può anche crederla «vera»; ma un discorso critico sulla geografia cinematografica non dovrebbe partire proprio dall'uso che dello spazio in quanto tale fa il discorso filmico (i molteplici discorsi filmici)? È qui, e in altri aspetti «tecnici» (l'uso di certi obiettivi, e soprattutto di obiettivi diversi nell'ambito dello stesso film, per dirne un'altra) della realizzazione di un film, che si colloca la differenza di sostanza: altrimenti, se ci si applica a parlare di un film «come se» si trattasse di un discorso verbale supportato dalle immagini (e infatti, e non per nulla, al film di immagini «realistiche» si può, a queste condizioni, accostare il film di animazione o il fumetto... che hanno caratteri tecnici del tutto differenti), non si rischia di perdere proprio l'essenziale, la differenza fondamentale, tra il discorso filmico e quello verbale-illustrato?
Come troppo spesso succede, il recensore ha sovrapposto i suoi propri dubbi e ragionamenti a quelli che il volume espone. Fornendo forse, per di più, un'idea di distacco critico dal percorso seguito dal volume. Distacco che, per la verità, non è tale: il volume, nella sua varietà di approcci, nell'affrontare generi e temi diversi, nel proporre una quantità di suggestioni di letture e di collegamenti, nell'approfondire molte delle possibili «responsabilità» del cinema e della televisione (un solo esempio: il turismo «indotto», di cui trattano i saggi di Rondinone e Bagnoli), conferma comunque il grandissimo interesse di questo tipo di studio e apre a una pluralità davvero molto vasta di spunti, anche grazie all'accurata informazione bibliografica che accompagna i singoli interventi. È forse nei saggi che si interessano del filone catastrofista (Malatesta e Rondinone; dell'Agnese) e di quello che si potrebbe, molto semplificando, definire «di fantasia» (Malatesta, Martegani, Picone e Rondinone; Schmidt di Friedberg; Picone), che si moltiplicano le «entrate» illuminanti e le connessioni esplicative più chiare. Ma in tutto il suo insieme la raccolta costituisce senz'altro un ottimo punto di riferimento per un certo ragionare sulla relazione tra immagini in movimento e «idee» geografiche.