L'altra New York. Alla ricerca della metropoli autentica

di Sharon Zukin
Il Mulino, 2013

Simbolo dell’America e dell’Occidente, la metropoli per definizione viene spiata da Sharon Zukin con appassionata sollecitudine, cogliendone i cambiamenti incessanti del tessuto urbano e culturale, specie in alcuni luoghi emblematici: Brooklyn (come è diventata «cool»), Harlem (come ha cessato di essere un ghetto), l’East Village (la dimensione locale nella città globale), Union Square (il riscatto dello spazio pubblico degradato). L’attenzione va soprattutto al problema dell’autenticità smarrita – i negozi scomparsi, gli abitanti dispersi, le atmosfere perdute – e del suo possibile recupero sotto nuove forme. Il proverbiale carattere «insonne» della città diventa allora segno di una inesauribile attitudine a reinventarsi.

Recensione (di Francesca S. Rota):

A pochi giorni dalla sua uscita in Italia, il libro di Sharon Zukin ha subito suscitato molte reazioni, tra cui diverse critiche. Per esempio, dalle colonne di la Repubblica e del Corriere della Sera commenti ricorrenti hanno riguardato la retorica non scevra di ideologia con cui la sociologa newyorkese affronta il tema della trasformazione di New York e, più in generale, l’annosa questione della percezione dello spazio urbano.
Effettivamente, leggendo il libro, sono diversi i passaggi che suscitano qualche perplessità. Per esempio, quando si legge che “la concretezza storica di un luogo sopravvive solo fino a quando gli imprenditori edili non sono interessati a costruire qualcosa di nuovo”. O come quando Zukin suggerisce che, seguendo le indicazioni di Jane Jacobs per una buona progettazione degli spazi urbani verso il coinvolgimento della comunità “le città avrebbero potuto evitare la carenza di investimenti nelle istituzioni pubbliche e il mancato raggiungimento dell’eguaglianza razziale e sociale che depressero tanti quartieri”.
Ma quello che colpisce maggiormente del volume è la contraddizione di fondo che caratterizza i ragionamenti dell’autrice. Se è vero infatti che in più punti Zukin sostiene la tesi per cui i quartieri più caratteristici di New York (Williamsburg, Harlem, East Village, Union Square) avrebbero oggi perso la propria autenticità a causa delle trasformazioni indotte da politici, immobiliaristi, architetti, urbanisti e promotori dell’economia culturale; è però anche vero che in altri punti l’autrice dimostra di essere consapevole della mutevolezza costante e intrinseca che connota New York, così come è consapevole del fatto che, anche quando presentata come il prodotto genuino di una cultura urbana locale, l’immagine del quartiere e del suo tessuto di edifici, negozi e relazioni è spesso fortemente imbevuta di significati e istanze che maturano a livello globale. È questo il caso della recente immagine accattivante di Brooklyn, costruita a partire dall’interesse suscitato presso la comunità internazionale per un tipo particolare di spettacoli ed eventi semi-legali, detti Rubulad, organizzati nel quartiere di Williamsburg.
Lo stesso titolo del volume è emblematico della tensione non risolta tra posizioni ideologiche, impeti nostalgici e ragionamenti razionali che caratterizza l’opera di Zukin. Il riferimento alla città autentica – naked nel titolo della versione inglese – suggerisce l’idea di una lettura della città e della sua trasformazione volta a coglierne l’anima più vera. Ma questo è in contrasto sia con quanto afferma la stessa autrice, secondo cui l’anima di una città, così come la sua autenticità, è qualcosa che viene costruito socialmente “una forma culturale di potere sullo spazio” che può essere usato dai residenti in direzione di una maggiore esclusività; sia con l’idea che sia possibile cogliere l’anima peculiare di New York, quando ogni singolo quartiere è considerato da Zukin come portatore di una propria anima. Inoltre, se per Zukin la città autentica è quella che permette agli abitanti di vivere lo spazio urbano e stabilirvi le radici, non si capisce perché questo diritto debba essere limitato a un solo tipo di residenti, ossia ai membri di una middle-class newyorkese di cui la Zukin stessa fa parte, e non possa essere invece esteso a tutti i tipi di abitanti, “starbuksizzatori” e “gentrificatori” inclusi. Anzi, è proprio il multiculturalismo e dinamismo (imprenditoriale, mediatico e anche immobiliare) che hanno reso New York famosa nel resto del mondo.
Zukin però non sembra dare peso a tutto ciò. Non senza qualche esagerazione, l’autrice si scaglia a più riprese contro le forze economiche che hanno trasformato New York «da pesante, goffo gigante moderno a una replica più raffinata, più patinata e più costosa di ciò che era stata». Eccessivo sembra in particolare il riferimento alle recenti trasformazioni di New York (dal Rinascimento di Harlem alla reinvenzione culturale di Willamsburg e, prima ancora, di SoHo e Hoxton, fino alla recente riorganizzazione dell’area di Ground Zero) come effetto di un complotto criminale tra politici corrotti e urbanisti avidi. Così come eccessivo è il paragone tra alcune aree di ricostruzione residenziale e i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.
D’altro canto, nel fornire la sua descrizione di New York, Sharon Zukin non è un’osservatrice distaccata. Come anche nel caso dell’opinionista Jane Jacobs, che rappresenta certamente il principale riferimento ideologico del volume (e per cui l’autrice non lesina ammirazione), Zukin è una residente che, nell’osservare le trasformazioni in corso, ripensa con malinconia alla vecchia città, quella dei piccoli negozi a gestione familiare, della mixitè socio-culturale e delle relazioni di vicinato. Un’immagina che Zukin ha vissuto in prima persona e che trova ancora ampia documentazione, oltre che nei lavori di Jacobs, nei vecchi film degli anni ’40-‘50.

La limitata coerenza teorica di base, insieme con una certa ridondanza di idee e concetti, finisce così per indebolire una lettura che per il resto è piacevole e molto ben documentata. Soprattutto per chi ha avuto la fortuna di visitare New York di recente, la lettura del saggio di Zukin permette di stabilire interessanti associazioni tra i luoghi e paesaggi della città contemporanea e quelli del passato recente la cui memoria rimane oggi relegata nei ricordi dei residenti, così come nei vecchi film e documentari. Interessante è anche la scelta di avvalersi di alcuni originali metodi di ricerca, tra cui l’analisi di numerosi blog contenenti i commenti dei residenti alle trasformazioni dei loro quartieri. Così come molto interessante è la ricostruzione del processo di privatizzazione di Union Square per effetto dell’istituzione di un Bid-Business Improvement District, ossia un’associazione composta da aziende locali e ricchi benefattori con un interesse legittimo nella riqualificazione e ripristino di porzioni di spazio pubblico altrimenti a rischio degrado.
Al lettore rimane la curiosità di sapere come Zukin avrebbe interpretato alcune recentissime trasformazioni come il movimento di protesta Occupy Wall Street, iniziato nel settembre del 2011 nei pressi di Zuccotti Park.