La nuova geografia del lavoro

di Enrico Moretti
Mondadori, 2013

Negli Stati Uniti l'economia postindustriale, basata sul sapere e sull'innovazione, sta cambiando profondamente il mercato del lavoro, sia per la tipologia dei beni prodotti sia per le modalità e, soprattutto, le località in cui vengono realizzati, creando enormi disparità geografiche in termini di istruzione, aspettativa di vita e stabilità famigliare. Per alcune regioni e città la globalizzazione e le nuove tecnologie vogliono dire aumenti nella domanda di lavoro, più produttività, più occupazione e redditi più alti. Per altre, chiusura di fabbriche, disoccupazione e salari sempre più bassi. Di questa "nuova geografia del lavoro" Enrico Moretti traccia una mappa dettagliata: visita città in ascesa e città in declino; passeggia per le vie di Pioneer Square, quartiere trendy di Seattle, e per quelle di Berlino, la capitale più attraente d'Europa, ma anche una metropoli sorprendentemente povera; e scopre che ogni posto di lavoro creato in centri di eccellenza dell'innovazione ne genera almeno cinque in altri settori produttivi, e tutti retribuiti meglio che altrove.

Recensione (di Massimiliano Tabusi): 
Enrico Moretti è un economista classe 1968, di scuola Bocconi, che dal 1994 vive e lavora negli Stati Uniti, insegnando attualmente a Berkley. Il volume, scritto con una prosa scorrevole e di agevole lettura, è dedicato ad un’analisi dei cambiamenti più o meno recenti del panorama economico e al rapporto che esiste tra produzione, innovazione e territorio. Una delle frasi-manifesto del testo, che non a caso campeggia sulla quarta di copertina, è “nel panorama economico attuale non conta tanto che cosa fai o chi conosci, ma dove vivi”. Una “grande divergenza”, infatti, si sta ampliando tra aree in ascesa, perché capaci di generare innovazione e incrementi di produttività, e aree in agonia, incatenate ad attività che in passato le avevano rese floride ma che oggi sono in via di obsolescenza. La nuova geografia del lavoro è l’edizione italiana del testo uscito originariamente in lingua inglese con il titolo The New Geography of Jobs (mantenere il plurale anche in italiano sarebbe stato comunque in sintonia con il testo), il cui focus è fortemente concentrato sugli USA, ed in particolare sulla scala urbana. La copertina dell’edizione americana ben evidenzia questa prospettiva, con un cartogramma degli Stati Uniti sul quale le principali città si collegano graficamente con circonferenze nelle quali sono inscritte diverse professioni. Queste ultime sono disposte in modo sostanzialmente gerarchico, in modo da simboleggiare la centralità di quelle innovative (computer scientist, medical researcher, geneticist ecc.), attorno alle quali sono disposte sia quelle più tradizionali e meno specializzate (secretary, carpenter, barber ecc.) che quelle che, pur specializzate non sono considerate particolarmente connesse all’innovazione (architect, doctor, therapist ecc.).
Nel testo si riflette sulle crescenti differenze, in termini di successo economico, tra città, anche e particolarmente all’interno di uno stesso stato, gli USA. Secondo Moretti l’elemento su cui puntare è il capitale umano; una buona misura dello stesso è l’alta formazione (ad esempio in termini di numero di laureati, i quali dovrebbero anche godere di salari più elevati). La diseguaglianza spaziale dagli anni Ottanta appare infatti connessa all’istruzione, poiché da quel decennio l’economia statunitense ha iniziato a focalizzarsi più sull’innovazione che sulla manifattura. Al loro interno gli Stati Uniti, dal punto di vista del successo economico, potrebbero essere suddivisi in tre tipologie: al top i “brain hubs”, ovvero le città nelle quali si concentra l’innovazione; all’estremo opposto le città con forza lavoro non specializzata, impiegata per lo più nei settori industriali tradizionali; in condizione intermedia le città la cui evoluzione si profila orientata verso uno degli estremi. Queste “tre Americhe” si stanno sempre più diversificando tra loro sotto molti punti di vista: la divergenza, causata da fattori economici, si sta estendendo a diversi altri aspetti sociali, culturali e politici del vivere comune: l’autore ricorda come si registrino, connessi ai divari di sviluppo, significativi scostamenti pure in termini di salute (ad esempio aspettativa di vita), situazioni familiari (divorzi) e partecipazione alla vita politica.
Il settore manifatturiero ha subito negli USA un vero e proprio declino, passando da oltre 20 milioni di addetti a metà degli anni Ottanta a poco più di 10 nel 2010, con un calo medio stimato in 372.000 posti di lavoro all’anno. Anche la consistenza demografica è connessa alla situazione economica: le grandi città di tradizione manifatturiera, un tempo orgoglio d’America, sono diventate “sinonimo di atrofia urbana e declino irreversibile”. New Orleans, Detroit, Cleveland, Cincinnati, Pittsburgh e altre hanno subito tra il 2000 e il 2010 un notevole calo di popolazione, quasi come se “continuassero ad essere investite da un loro uragano Katrina”. L’attività manifatturiera soffre di un continuo declino delle potenzialità d’impiego a causa dell’azione combinata dell’automazione e della concorrenza globale. Declino che appare irrimediabile, con l’eccezione, anche in questo caso, dei lavoratori ad elevata formazione e specializzazione: il numero di ingegneri impiegati negli USA nel settore manifatturiero è raddoppiato nel periodo 1980-2012; la Apple è un esempio, peraltro ricorrente nel testo.
L’elemento traente, dunque, è quello dell’innovazione, che usa in modo intensivo il capitale umano e realizza idee e prodotti unici, tendenzialmente non riproducibili altrove, almeno nel breve termine. Moretti corrobora questa analisi con dati sull’ascesa dell’occupazione nei settori dell’innovazione, molto legati alle città: attorno ad esse, infatti, si crea un effetto clustering, poiché le città “attraenti” (così è stato tradotto il sexy cities del testo originale), ovvero quelle capaci di generare ed attrarre lavoratori meglio formati e datori di lavoro innovativi, avviano a loro vantaggio una spirale virtuosa che, contemporaneamente, approfondisce il divario tra città “vincenti” e “perdenti”. Naturalmente non tutta la forza lavoro può essere iper-specializzata e impiegata nei settori innovativi, ma, a caduta, il territorio nel suo complesso si giova della presenza di questi settori, generando con un effetto moltiplicatore molti posti di lavoro per quelle che Moretti definisce come prestazioni professionali non commerciabili. Questo poiché hanno la caratteristica di non poter “essere trasferite fuori dalla località in cui vengono prodotte: vanno consumate là dove si producono” (dal maestro di yoga alla baby sitter, dai tassisti ai carpentieri, Moretti elenca diversi esempi, tra i quali annovera anche terapisti, medici e avvocati). Il vantaggio economico che genera la “grande divergenza” – anche territoriale, come si è detto – deriva, spiega l’autore, dal differente tasso di crescita della produttività: mentre per i settori non-traded la quantità di lavoro necessaria “è più o meno la stessa di sempre”, nei settori innovativi, “grazie al progresso tecnologico, la produttività ha la tendenza a crescere nel tempo”. Se Google decidesse di assumere un software engineer a San Francisco, ci sarebbe più lavoro per camerieri, tassisti, dottori, architetti ecc., ma – e questo è determinante – non sarebbe vero il contrario. Per ogni posto di lavoro in più creato nel settore dell’innovazione, ben 5 posti (è uno degli efficaci e fortunati memi veicolati dal lavoro di Moretti) si creerebbero, nella stessa città, in settori più tradizionali. Si ha così un apparente paradosso, visto che l’impatto più forte delle assunzioni nei settori innovativi si genera all’esterno degli stessi: poiché i salari nell’high tech sono più elevati, le società in questo campo usano di più i servizi offerti localmente e si determina, inoltre, un effetto clustering che favorisce ulteriore innovazione.
La divergenza non è un fenomeno solo statunitense, ma si registra anche in Europa, continente in cui alcune regioni e città stanno tentando di attivare il circolo virtuoso che consiste nel creare innovazione ed attrarre lavoratori con elevata qualificazione. Se si pensa che, secondo Moretti, “il primo problema dell’economia americana è che l’investimento pubblico e privato nella ricerca è insufficiente”, ben si comprende come l’Italia, in questo processo, appaia sempre più attratta verso la periferia, con pochi cluster d’innovazione di scarso impatto globale o europeo.
Pur essendo estremamente focalizzato sulla realtà nordamericana e fortemente correlato a quel contesto tanto territoriale (ad esempio rispetto alla struttura urbana) quanto socio-culturale (si pensi alla mobilità, al ruolo dei capitali di rischio, alla fiducia sull’individuo che “può farcela” investendo su se stesso – in questo caso sulla sua formazione), il testo di Moretti è molto interessante e utile per mettere a fuoco i profondi cambiamenti che, non solo negli USA, coinvolgono i processi produttivi ed il ruolo del lavoro. Ugualmente interessante, particolarmente per chi si interessa di geografia, è il riferimento al ruolo dello spazio. Se, soprattutto per la scelta del taglio divulgativo, i processi di clustering descritti possono apparire talvolta quasi neo-deterministi (il “dove vivi” che diviene determinante) e l’innovazione non sempre radicata nel contesto multiscalare (trascurando l’obiettivo che la stessa si pone, il milieu in cui si genera e il mercato cui si rivolge), la relazione spazio/territorio/lavoro che il testo evidenzia è certamente un fecondo campo di applicazione anche per la geografia. Il fatto che la nutrita bibliografia non comprenda lavori di geografe e geografi come Castree, Herod, Martin, Massey, Peck, Wills e altri che hanno indagato questa relazione (manca, ovviamente per scelta, anche un economista attento a questi temi come Krugman, cui pure una citazione è concessa nel corso del testo grazie alle ricerche “di primissimo piano in questo campo”, “prima di diventare editorialista del New York Times”) non può che stimolare ulteriori sguardi disciplinari sulle nuove geografie del lavoro di questo nuovo millennio. Il tema è assolutamente cruciale e il pensiero geografico – anche l’approccio ed il successo del testo di Moretti lo dimostrano – può offrire un contributo assai importante tanto al dibattito scientifico quanto, più in generale, all’opinione pubblica.