Il diritto alla città

di Henry Lefebvre
Ombre Corte, 2014 (riedizione)

Il diritto alla città di cui ci parla Henri Lefebvre non esprime semplicemente la rivendicazione di bisogni essenziali. Esso si configura come una qualità specifica dell'urbano, che comprende la possibilità di sperimentare una vita urbana alternativa. "Il diritto alla città - scrive Lefebvre - si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all'individualizzazione nella socializzazione, all'habitat e all'abitare". Tale diritto implica perciò una riappropriazione di tempi e spazi del vivere urbano, una ristrutturazione delle relazioni sociali, politiche ed economiche a partire da un drastico cambiamento nell'arena decisionale. La riedizione di questo libro, apparentemente lontano nel tempo, appare particolarmente opportuna in un momento in cui in molti si chiedono se stiamo assistendo a una nuova crisi urbana, e il concetto di "diritto alla città" è largamente utilizzato per provare a definire le rivendicazioni dei movimenti sociali urbani contemporanei.

Recensione (di Fabiana D'Ascenzo):

La riedizione di questo classico della letteratura scientifica sulla città, pubblicato per la prima volta nel 1967, mentre suscita qualche inevitabile interrogativo circa la sua attualità, offre nel contempo la possibilità di rispondere affermativamente a queste domande mediante una serie di conferme riguardanti la precocità, l’acutezza e la modernità di un’analisi critica rivolta alla dimensione dell’urbano.
Sebbene da diversi anni la maggior parte della popolazione mondiale viva nelle città, la crisi urbana sembra tutt’altro che conclusa. Anzi, essa sembra dilagare nell’intero pianeta e diffondersi a ogni latitudine, caratterizzando tanto il Nord quanto il Sud del mondo, benché con forme e modalità diverse. Una crisi antica, attribuita da Henri Lefebvre all’espansione del sistema capitalistico industriale, all’omogeneizzazione degli stili di vita e alla sostituzione del valore d’uso della città con il valore di scambio.
L’industrializzazione ha stravolto i nuclei urbani. Due casi esemplari sono quelli delle antiche città di Venezia e di Atene: nel primo caso, con il trasferimento della popolazione locale nell’area di Mestre e, nel secondo, con la cristallizzazione del nucleo turistico e la proliferazione delle periferie. Presto si arriverà all’invenzione dell’habitat e, se prima abitare voleva dire appartenere a una comunità, partecipare alla vita sociale, da un certo momento in poi si abiterà il sobborgo per rispondere all’esodo dalle campagne imposto con l’industrializzazione. Ma l’invenzione dell’habitat contempla anche altre forme disurbanizzanti, quali le villette unifamiliari, gli alienanti complessi edilizi, i quartieri operai. Lo Stato, per esempio, si farà carico della costruzione di alloggi con i “nuovi quartieri” e i “nuovi complessi”, quelle strutture residenziali che realizzano il concetto di habitat escludendo l’idea di abitare.
Il processo di industrializzazione devasta la città e la sua antica centralità anche in un altro senso, vale a dire ricomponendo nuove forme di centralità nei centri direzionali. Qui vengono accentrati gli strumenti del potere – informazione, organizzazione, operatività – e si forma una razionalità organizzatrice, operante a diversi livelli della società. Intorno a tali centri si ripartiscono i suburbi, nei quali si rivela l’urbanizzazione disurbanizzata.
Nascono così quelli che Lefebvre definisce i regni della segregazione e della separazione tra gli elementi di ciò che era stato creato come unità e simultaneità. In tal modo si danno tutte le condizioni per un dominio impeccabile, per un sofisticato sistema di sfruttamento degli individui.
D’altro canto si assiste a una penetrazione della vita urbana in campagna: oggetti, servizi, mode e stili di vita, più in generale “razionalità” diffuse dalla città: spesso questi segnali vengono captati dai giovani delle campagne che li assimilano e li promuovono nel loro contesto sociale. Nel frattempo, come per una sorta di simmetria, tra le maglie del tessuto urbano resistono luoghi di ruralità intaccate, territori talvolta poveri, abitati da vecchi contadini che non riescono a integrarsi se non in quel modo. Ecco dunque che le relazioni tra ambiente urbano e ambiente rurale, invece di sfumare, si intensificano e diventano più complesse.
Nella trasformazione del rapporto città-campagna Lefebvre individua forme più sottili di sopraffazione rispetto al tradizionale sfruttamento della campagna da parte della città. L’espansione urbana aggredisce la campagna corrodendola, altri stili di vita pervadono il mondo contadino e lo spogliano degli elementi tradizionali: è il caso, per esempio, dell’artigianato oppure dei piccoli centri che deperiscono a vantaggio del grande commercio. La campagna sembra così dissolversi.
Subentra la dimensione del rururbano e, nella confusione tra città e campagna, Lefebvre intercetta una peculiarità: sebbene, infatti, si attenui l’opposizione tra le due forme insediative, si accentua quella tra urbanità e ruralità. Inoltre l’opposizione fra città e campagna, lungi dall’essere risolta, si sposta a un diverso livello di scala, investendo il piano globale delle relazioni tra paesi industriali più urbanizzati e paesi emergenti meno urbanizzati.
L’autore insiste molto sulla distinzione tra realtà pratico sensibile e realtà sociale, vale a dire tra città e urbano, tra campagna e rurale, perché ne riconosce il valore analitico, ma non esita a scongiurare i pericoli insiti nella separazione tre i due piani, che deve appunto restare strumentale. L’urbano in particolare, la dimensione che evidentemente costituisce il fulcro dell’interesse di Lefebvre, non può essere definito solo in quanto legato a una morfologia materiale, ma nemmeno può esserne completamente sganciato. L’originaria carica innovativa del testo, probabilmente, risiede proprio in questo punto: nel tentare cioè di dare valore, dignità e giusto peso a tutto il bagaglio socio-culturale che l’apparato della città comporta, cioè attribuire un senso proprio alla vita urbana.
Già negli anni Settanta del Novecento la città scoppiava morfologicamente a ogni latitudine: nei paesi in via di sviluppo, nei paesi socialisti, nei paesi capitalisti. Il sovraffollamento dovuto all’esodo rurale, generando la questione degli alloggi, catalizzava l’attenzione nascondendo tutti gli altri problemi della città: la risposta è stata una sempre più stringente razionalizzazione, spesso sfociata nella giustapposizione degli spazi.
I bisogni sociali di una società urbanizzata sono però molteplici, riguardano la sicurezza, l’apertura all’esterno, la certezza economico-materiale, il desiderio d’avventura. L’uomo ha esigenza di accumulare energie e spenderle o dissiparle in attività ludiche, sportive, creative, intellettuali. L’urbano possiede un carattere di totalità altamente complesso e non riducibile, ma che diventa necessario prendere in considerazione per interpretare la città. Proprio in virtù di questo suo carattere intrinseco, la conoscenza elaborata su di esso non può in alcun modo avanzare la pretesa di manipolarlo. Gli scienziati sociali possono infatti proporre modelli, predisporre un iter, ma non possono creare i rapporti sociali. E ciò perché, per quanto la scienza fornisca un fondamento teorico e critico, una base positiva, solo la forza sociale capace di impegnarsi concretamente nell’urbano può realizzare un programma. La scienza della città, dunque, viene considerata condizione necessaria ma non sufficiente: accanto a essa sono indispensabili le forze sociali e politiche che ne innervano la vita e ne garantiscono la riproduzione. Non a caso l’autore parlerà di nuovo umanesimo, al quale dovrebbero tendere il pensiero e l’azione rivolti alla città, affinché la pianificazione sia effettivamente orientata ai bisogni sociali della società urbana.
E se i diritti che definiscono la civiltà sono individuabili nel diritto al lavoro, all’istruzione, all’educazione, alla salute, al tempo libero, il diritto alla città coincide con le possibilità di accesso alla vita urbana trasformata e rinnovata. Tutto ciò richiede una triplice rivoluzione: economica, orientata sui bisogni sociali, politica, nella quale sia presente il controllo democratico dell’apparato statale, ma soprattutto una rivoluzione culturale permanente.
A compiere questo auspicabile destino Lefebvre chiama in causa un attore sociale, che oggi potrebbe sembrare obsoleto, rivendicandone il ruolo imprescindibile: la classe operaia. E a quanti dubitassero della sua esistenza, l’autore porge un invito semplice: osservare le nostre città, perché la segregazione dell’abitare permette di cogliere la classe operaia inscritta al suolo, proiettata sul terreno. Infatti, se la tradizionale miseria proletaria tende a diminuire, se ne diffonde una nuova che colpisce non solo il proletariato in senso stretto. È la miseria dell’habitat, dell’abitante asservito a una quotidianità predefinita e a un consumo decretato.

Ed è ancor più interessante oggi, a distanza di quasi mezzo secolo dalle lungimiranti analisi di Lefebvre, rintracciare sotto il manto urbano le nuove forme che tali dinamiche vanno assumendo, soprattutto alla luce dei rinnovati rapporti di subalternità tra le diverse aree del pianeta e delle riconfigurazioni, tutt’altro che stabili, delle reti di città.