di Maurizio Reberschak
Cierre, 2016 (1983)
"Il Grande Vajont" è l'espressione con la quale i tecnici della Sade chiamavano l'enorme diga che il 9 ottobre 1963, con la frana del Toc e l'esondazione verso il paese di Longarone, causava quasi 1910 vittime. Questo volume, pubblicato nel 1983 e oggi completamente riveduto dagli autori dei vari saggi, rappresenta un inquadramento generale del problema-Vajont, dal punto di vista della cronaca, della legge, dell'informazione, della geologia; ma al tempo stesso non si esime dal levare un forte grido d'accusa nei confronti di una strage ormai dimenticata.
Recensione (di Teresa Isenburg):
L’ opportuna ristampa del corposo volume costruito da Maurizio Reberschak e i suoi collaboratori, in primo luogo gli studiosi dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Conteporane (ISBREC), nella quarantesima ricorrenza del Vajont e la contemporanea pubblicazione di Gianni Silei sulla gestione amministrativo-territoriale nei mesi immediatamente successivi alla distruzione invita a ragionare una volta ancora non tanto sull’accadimento in questione (cioè la frana, l’onda di piena, la diga, la distruzione territoriale, la falcidia di oltre 1900 vite avvenuta in sei minuti la sera del 9 ottobre 1963 in un luogo non particolarmente conosciuto del Bellunese), ma soprattutto sul rapporto fra studio, ricerca, comunicazione e conoscenza, memoria,azione: insomma, il nostro lavoro.
La prima cosa su cui riflettere è come è successo e succede che a distanza di molti decenni si parli ancora di Vajont non in termini commemorativi, ma propositivi, come vicenda esemplare, un laboratorio, qualche cosa da trasmettere da una generazione all’altra. Il messaggio di fondo è che il Vajont non può essere messo nell’armadio polveroso e soggettivo dei ricordi di famiglia, è qualche cosa che accompagna nel tempo le generazioni stesse e travalica il luogo in cui tutto è accaduto. Il Vajont racconta una storia materiale e simbolica che riguarda molti altri luoghi e altre genti con destini simili ben al di là di quelle valli. Direi che una voce Vajont per una enciclopedia o un dizionario dovrebbe avere due lemmi: uno con la maiuscola con latitudine longitudine diga frana morti ecc. E una con la minuscola e la definizione: nome comune di luogo in cui azioni antropiche attente agli interessi di pochi distruggono la vita di molti: cosa particolamente attuale in presenza degli immensi invasi che le tecnogie negli ultimi anni consentono.
Questa specifica valenza simbolica ed esemplare che il Grande Vajont ha assunto nel corso dei decenni successivi alla catastrofe ( e che altri fatti similarmente distruttivi non hanno acquisito, neppure l’alluvione di un terzo del territorio nazionale nell’autunno del 1966) tuttavia non è casuale. Essa è figlia diretta e legittima del grande lavoro di ricerca di base e di interpretazione compiuto per decenni da molti e che ha permesso di trasformare un accadimento catastrofico e tragico in un oggetto di studio rigoroso e poi ha consentito di decodificare quanto raccolto nella ricerca di base, ha chiesto di interpretare, verificare, sottoporre a verifica, trasmettere e raccontare di nuovo e di nuovo incorporando le modificazioni culturali che si formano nel passaggio da una generazione all’altra e da sguardi diversi.
In particolare è certamente stato Maurizio Reberschak che, coniugando competenza professionale di storico e tenacia, ha conquistato la credibilità per imporre la salvaguardia della documentazione, l’accessibilità alla stessa e la divulgazione degli studi, attrezzando il laboratorio specifico della sperimentazione, cioè raccogliere e rendere fruibile la fonte cartacea,umana (testimonianze racconti memorie), morfologica. Per ripercorre i fatti bisogna con pazienza studiare i molti testi dai quali esce documentata la conoscenza dei rischi che le modalità di costruzione del sistema idroelettrico del Grande Vajont comportava, soprattutto idrogeologici, il punto fragile del territorio italiano come si sa da tempi lontani (si pensi alla secolare denuncia delle conseguenze del diboscamento). Insomma, la massiccia letteratura sul Vajont ci indica un modo di fare ricerca esemplare per connettere studio e società, per svolgere il compito di produrre conoscenza critica, applicando il dettato cattaneano (e in fondo Carlo Cattaneo è il miglior geografo italiano contemporaneo) “principio del ben fare è il ben conoscere”.
Certo, in questo caso conoscenze e documentazione sono arrivate ex post e questo ci dice che invece bisogna conoscere ex ante; ma il lavoro fatto per il Vajont indica a che cosa bisogna prestare attenzione, come è indispensabile la conoscenza di medio periodo dei luoghi, di come le popolazioni locali sanno e percepiscono le caratteristiche dei luoghi stessi e le loro fragilità. Bene sarebbe riprendere la catalogazione dei casi di dissesto idrogeologico che Vincenzo Catenacci, prematuramente scomparso, aveva compiuto per il periodo dal dopoguerra -1990 (Memoria descrittiva della Carta geologica d’Italia XLVII, 1992) o i lavori di Roberto Almagià, Studi geografici sopra le frane in Italia (Roma, Società Geografica Italiana, 1907-1910, 3 voll.), tenace organizzatore di strumenti di base oltre che con i volumi sulle frane con i suoi ancora insostituiti Monumenta Cartographica. Nel momento storico che viviamo in cui la ricerca di base è considerata un orpello che i "vincoli economici" non consentono di praticare, l’insieme della vicenda Vajont ci racconta una storia diversa ed esemplare: adesso il compito è che questo lavoro di ricerca di base, questo laboratorio costruito da molti e lungo percorsi diversi non rimanga un prototipo, un modello in scala ridotta, ma diventi un metodo diffuso di indagine e governo del territorio.
Lo studio di Gianni Silei aggiunge una tessera al mosaico dell'area all'ombra del monte Toc: la consultazione dell'archivio e la riflessione sul breve periodo fra 1963 e 1964 in cui al Ministero dei Lavori Pubblici sedeva Giovanni Pieraccini racconta che in quel frangente sembrò profilarsi, forse, una ipotesi di ricostruzione, frutto di uno sforzo anche teorico, che faceva riferimento a un ritaglio territoriale comprensoriale che oggi chiamiamo di area vasta . Tale impostazione, che aveva come referente tecnico Alberto Samonà, affrontava alcuni nodi e altri, non secondari, li lasicava irrisoltri. In particolare il rapporto fra centro e amministrazioni locali (le regioni erano ancora lontane, in dispezzo della Costituzione) e la partecipazione della popolazione nel processo decisionale. Le modalità applicative della ricostruzione fra anni '60 e '70 presero strade più confuse e quel lembo di terra solcata dal Piave non ebbe un destino urbanistico-economico felice.
Mi permetto di proporre di integrare lo studio dei testi indicati, che servono anche da guida bibliografica, con la letture di due saggi che trasmettono un' intensa percezione del significato e del vissuto del disciplinamento antropocentrato delle acque.Testi che vengono dal mondo culturale ticinese, sensibile nel comunicare in modo puntuale e insieme con respiro i quadri ambintali della propria terra. Lo scrittore e poeta Giovanni Orelli ci conduce nella forma solida e lieve di H2O, quella neve silente e senza fine che scosse o suoni possono trasformare in veloce valanga. E sul tema della neve fra natura e cultura si può leggere uno dei libri di Xavier de Planhol (scomparso nel maggio 2016), geografo di immensi saperi e coraggioso, quasi visionario, narratore: Eau de neige. (Flammarion, 1995). A Erminio Ferrari siamo debitori di un libro emozionante e rigoroso, la rivisitazione, mezzo secolo dopo, di un incidente sul lavoro (migratorio, aggiugrei, come Mattmark) si direbbe in educato linguaggio sociologico. Quello che il 15 febbraio 1966 costò la vita a 15 operai italiani e due pompieri ticinesi: i primi lavoravano allo scavo delle gallerie sotterranee per convogliare le acque di alcune alte valli sul lato sud del Gottardo verso un invaso idroelettrico. Morirono avvelenati da gas mortali accumulati nei cunicoli quando riaprivano le paratoie delle gallerie dopo l'esplosione delle mine; i pompieri nel portare soccorso. Accanto alla voce delle vedove e degli orfani intervistati in tempi diversi da Ferrari, ci giunge la descrizione, attraverso un caso specifico, dell'immane trasformazione sotteranea, oltre che di superficie, del sistema idrologico che il complesso idroelettrico alpino ha subito fra fine ottocento e anni '70 del XX secolo. Colpisce anche la analogia processuale fra il Vajont, caso macro, e Robiei, caso micro, di morti per interessi idro-economici: i committenti si nascondono dietro alle solite frasi, disgrazia naturale, non prevedibile, non si sapeva. Ma basta sollevare un poco il velo che nasconde il concatenarsi di studi, decisioni, fatti perché appaia chiara la fredda scelta di correre rischi per non ridurre gli utili. Un insieme di letture che forse aiuta a capire meglio la sfaccettata unitarietà del ciclo dell'acqua intercettato dall'umano agire.
Cierre, 2016 (1983)
"Il Grande Vajont" è l'espressione con la quale i tecnici della Sade chiamavano l'enorme diga che il 9 ottobre 1963, con la frana del Toc e l'esondazione verso il paese di Longarone, causava quasi 1910 vittime. Questo volume, pubblicato nel 1983 e oggi completamente riveduto dagli autori dei vari saggi, rappresenta un inquadramento generale del problema-Vajont, dal punto di vista della cronaca, della legge, dell'informazione, della geologia; ma al tempo stesso non si esime dal levare un forte grido d'accusa nei confronti di una strage ormai dimenticata.
Recensione (di Teresa Isenburg):
L’ opportuna ristampa del corposo volume costruito da Maurizio Reberschak e i suoi collaboratori, in primo luogo gli studiosi dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Conteporane (ISBREC), nella quarantesima ricorrenza del Vajont e la contemporanea pubblicazione di Gianni Silei sulla gestione amministrativo-territoriale nei mesi immediatamente successivi alla distruzione invita a ragionare una volta ancora non tanto sull’accadimento in questione (cioè la frana, l’onda di piena, la diga, la distruzione territoriale, la falcidia di oltre 1900 vite avvenuta in sei minuti la sera del 9 ottobre 1963 in un luogo non particolarmente conosciuto del Bellunese), ma soprattutto sul rapporto fra studio, ricerca, comunicazione e conoscenza, memoria,azione: insomma, il nostro lavoro.
La prima cosa su cui riflettere è come è successo e succede che a distanza di molti decenni si parli ancora di Vajont non in termini commemorativi, ma propositivi, come vicenda esemplare, un laboratorio, qualche cosa da trasmettere da una generazione all’altra. Il messaggio di fondo è che il Vajont non può essere messo nell’armadio polveroso e soggettivo dei ricordi di famiglia, è qualche cosa che accompagna nel tempo le generazioni stesse e travalica il luogo in cui tutto è accaduto. Il Vajont racconta una storia materiale e simbolica che riguarda molti altri luoghi e altre genti con destini simili ben al di là di quelle valli. Direi che una voce Vajont per una enciclopedia o un dizionario dovrebbe avere due lemmi: uno con la maiuscola con latitudine longitudine diga frana morti ecc. E una con la minuscola e la definizione: nome comune di luogo in cui azioni antropiche attente agli interessi di pochi distruggono la vita di molti: cosa particolamente attuale in presenza degli immensi invasi che le tecnogie negli ultimi anni consentono.
Questa specifica valenza simbolica ed esemplare che il Grande Vajont ha assunto nel corso dei decenni successivi alla catastrofe ( e che altri fatti similarmente distruttivi non hanno acquisito, neppure l’alluvione di un terzo del territorio nazionale nell’autunno del 1966) tuttavia non è casuale. Essa è figlia diretta e legittima del grande lavoro di ricerca di base e di interpretazione compiuto per decenni da molti e che ha permesso di trasformare un accadimento catastrofico e tragico in un oggetto di studio rigoroso e poi ha consentito di decodificare quanto raccolto nella ricerca di base, ha chiesto di interpretare, verificare, sottoporre a verifica, trasmettere e raccontare di nuovo e di nuovo incorporando le modificazioni culturali che si formano nel passaggio da una generazione all’altra e da sguardi diversi.
In particolare è certamente stato Maurizio Reberschak che, coniugando competenza professionale di storico e tenacia, ha conquistato la credibilità per imporre la salvaguardia della documentazione, l’accessibilità alla stessa e la divulgazione degli studi, attrezzando il laboratorio specifico della sperimentazione, cioè raccogliere e rendere fruibile la fonte cartacea,umana (testimonianze racconti memorie), morfologica. Per ripercorre i fatti bisogna con pazienza studiare i molti testi dai quali esce documentata la conoscenza dei rischi che le modalità di costruzione del sistema idroelettrico del Grande Vajont comportava, soprattutto idrogeologici, il punto fragile del territorio italiano come si sa da tempi lontani (si pensi alla secolare denuncia delle conseguenze del diboscamento). Insomma, la massiccia letteratura sul Vajont ci indica un modo di fare ricerca esemplare per connettere studio e società, per svolgere il compito di produrre conoscenza critica, applicando il dettato cattaneano (e in fondo Carlo Cattaneo è il miglior geografo italiano contemporaneo) “principio del ben fare è il ben conoscere”.
Certo, in questo caso conoscenze e documentazione sono arrivate ex post e questo ci dice che invece bisogna conoscere ex ante; ma il lavoro fatto per il Vajont indica a che cosa bisogna prestare attenzione, come è indispensabile la conoscenza di medio periodo dei luoghi, di come le popolazioni locali sanno e percepiscono le caratteristiche dei luoghi stessi e le loro fragilità. Bene sarebbe riprendere la catalogazione dei casi di dissesto idrogeologico che Vincenzo Catenacci, prematuramente scomparso, aveva compiuto per il periodo dal dopoguerra -1990 (Memoria descrittiva della Carta geologica d’Italia XLVII, 1992) o i lavori di Roberto Almagià, Studi geografici sopra le frane in Italia (Roma, Società Geografica Italiana, 1907-1910, 3 voll.), tenace organizzatore di strumenti di base oltre che con i volumi sulle frane con i suoi ancora insostituiti Monumenta Cartographica. Nel momento storico che viviamo in cui la ricerca di base è considerata un orpello che i "vincoli economici" non consentono di praticare, l’insieme della vicenda Vajont ci racconta una storia diversa ed esemplare: adesso il compito è che questo lavoro di ricerca di base, questo laboratorio costruito da molti e lungo percorsi diversi non rimanga un prototipo, un modello in scala ridotta, ma diventi un metodo diffuso di indagine e governo del territorio.
Lo studio di Gianni Silei aggiunge una tessera al mosaico dell'area all'ombra del monte Toc: la consultazione dell'archivio e la riflessione sul breve periodo fra 1963 e 1964 in cui al Ministero dei Lavori Pubblici sedeva Giovanni Pieraccini racconta che in quel frangente sembrò profilarsi, forse, una ipotesi di ricostruzione, frutto di uno sforzo anche teorico, che faceva riferimento a un ritaglio territoriale comprensoriale che oggi chiamiamo di area vasta . Tale impostazione, che aveva come referente tecnico Alberto Samonà, affrontava alcuni nodi e altri, non secondari, li lasicava irrisoltri. In particolare il rapporto fra centro e amministrazioni locali (le regioni erano ancora lontane, in dispezzo della Costituzione) e la partecipazione della popolazione nel processo decisionale. Le modalità applicative della ricostruzione fra anni '60 e '70 presero strade più confuse e quel lembo di terra solcata dal Piave non ebbe un destino urbanistico-economico felice.
Mi permetto di proporre di integrare lo studio dei testi indicati, che servono anche da guida bibliografica, con la letture di due saggi che trasmettono un' intensa percezione del significato e del vissuto del disciplinamento antropocentrato delle acque.Testi che vengono dal mondo culturale ticinese, sensibile nel comunicare in modo puntuale e insieme con respiro i quadri ambintali della propria terra. Lo scrittore e poeta Giovanni Orelli ci conduce nella forma solida e lieve di H2O, quella neve silente e senza fine che scosse o suoni possono trasformare in veloce valanga. E sul tema della neve fra natura e cultura si può leggere uno dei libri di Xavier de Planhol (scomparso nel maggio 2016), geografo di immensi saperi e coraggioso, quasi visionario, narratore: Eau de neige. (Flammarion, 1995). A Erminio Ferrari siamo debitori di un libro emozionante e rigoroso, la rivisitazione, mezzo secolo dopo, di un incidente sul lavoro (migratorio, aggiugrei, come Mattmark) si direbbe in educato linguaggio sociologico. Quello che il 15 febbraio 1966 costò la vita a 15 operai italiani e due pompieri ticinesi: i primi lavoravano allo scavo delle gallerie sotterranee per convogliare le acque di alcune alte valli sul lato sud del Gottardo verso un invaso idroelettrico. Morirono avvelenati da gas mortali accumulati nei cunicoli quando riaprivano le paratoie delle gallerie dopo l'esplosione delle mine; i pompieri nel portare soccorso. Accanto alla voce delle vedove e degli orfani intervistati in tempi diversi da Ferrari, ci giunge la descrizione, attraverso un caso specifico, dell'immane trasformazione sotteranea, oltre che di superficie, del sistema idrologico che il complesso idroelettrico alpino ha subito fra fine ottocento e anni '70 del XX secolo. Colpisce anche la analogia processuale fra il Vajont, caso macro, e Robiei, caso micro, di morti per interessi idro-economici: i committenti si nascondono dietro alle solite frasi, disgrazia naturale, non prevedibile, non si sapeva. Ma basta sollevare un poco il velo che nasconde il concatenarsi di studi, decisioni, fatti perché appaia chiara la fredda scelta di correre rischi per non ridurre gli utili. Un insieme di letture che forse aiuta a capire meglio la sfaccettata unitarietà del ciclo dell'acqua intercettato dall'umano agire.