Feltrinelli, 2011
Da tre secoli il capitalismo plasma il mondo, sostentando e condizionando le nostre vite. Nonostante sia attraversato da ricorrenti crisi interne così profonde da mettere a rischio la sopravvivenza di intere nazioni, il capitalismo continua a espandersi, incontrastato. Scopo di questo libro è capire come ciò accada e se sia inevitabile che continui ad avvenire anche in futuro. Si apre con una ricostruzione dei fatti relativi alla crisi economica che da tempo attraversa il capitalismo finanziario globale e alle innumerevoli altre crisi che hanno contrassegnato il percorso del capitalismo dal secondo dopoguerra a oggi. Questa ricostruzione porta Harvey a porre un problema classico del marxismo: quello del carattere strutturale delle crisi che il capitalismo attraversa, uscendone trasformato ma anche consolidato e rafforzato. In particolare al centro dell'analisi c'è il problema della crescita illimitata.
Recensione (di Teresa Isenburg):
Vorrei riunire le mie riflessioni su due campi di
considerazioni: perché vale in generale la pena di leggere David Harvey e quale è il
contenuto del saggio in questione.
Di fronte al mare
magnum di quanto viene scritto e diffuso in modalità differenti nell’ambito
della ricerca diventa (parlo per me, ma credo di non essere fuori strada nel
ritenere questo un problema più generale) scegliere che cosa leggere, su che
cosa soffermarsi passando dalla lettura allo studio, che cosa seguire in modo
regolare, come non essere risucchiati da un vortice di pagine. Si pone dunque
una necessità irrimandabile di opzioni e quindi di esclusione. Selezione resa
ancora più difficile per l’incalzare ( e qui penso soprattutto alle giovani
generazioni di studiosi tenuti sulla corda di contratti temporanei sub condicione, anche se non è
esplicitato quale essa sia ) di richieste di “internazionalizzazione” e di
acquisizione o meglio conquista di
finanziamenti che si traduce inesorabilmente nell’accettazione obbligata dei
percorsi di ricerca impostati e imposti dai bandi, che siano essi regionali,
nazionali, internazionali: i bandi, infatti, dicono ciò che deve essere
studiato in base a progetti ed esigenze di cui non sempre, per non dire quasi
mai, viene dichiarata la motivazione né tanto meno la finalità reale.
Harvey con ostinata costanza durante la sua lunga vita scientificamente produttiva
ripropone e difende il ruolo
dell’intellettuale come soggetto attivo
del cambiamento di una società. E questo, a mio modo di vedere, rimane il
giunto cardanico mestiere di studioso e ricercatore. Un mestiere, appunto, per
dirla con Marc Bloch, che di esso non esitò a fare la leva del proprio
coraggioso agire politico e militare. Certo, si può dire, siamo in presenza di
esempi di altissimo livello qualitativo, lontano (parlo sempre per me) dalla
personale mediocrità di cui spesso ci si sente prigionieri o che si accetta quale
giustificazione di impedimento. Ma il rispetto e l’applicazione dell’articolo 4
della Costituzione del nostro paese non lascia dubbi in proposito: “Ogni
cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria
scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”. Certo, si può discutere all’infinito che cosa sia il
progresso, ma la cura linguistica della nostra legge fondativa (di cui molto si
deve a Piero Clamandrei) non consente di equivocare più di tanto quando parla
di dovere, lega progresso a società e usa il plurale riferito alle possibilità
e il singolare rapportato a scelta, che acquisisce quindi un forte contenuto
morale.
Ecco, i libri di D.H. dichiarano con chiarezza esplicita la
scelta ideologica, metodologica, progettuale e applicativa che guida la sua
vasta produzione scientifica. Mi permetto di ripetere una banalità: ogni lavoro
di ricerca poggia su un’opzione ideologica, inclusa quella apparentemente
debole o falsamente equilibrata della neutralità della scienza. Harvey ormai da circa quarant’anni utilizza
con rigore una rilettura approfondita e critica dell’opera di Karl Marx: tra
l’altro, i suoi otto lustri di lavoro didattico di scavo sul Capitale si
possono ora seguire in forma open on line. Ovviamente l’opzione di Harvey di
rileggere Marx (cosa che, come egli stesso dice con ironia comporta di essere
etichettato di marxista, termine di cui lo studioso inglese non ritiene ovvio
il significato) non vuole qui essere presentata come paradigmatica. Ciascuno
compie le proprie scelte teoriche e metodologiche. Ma quello che mi sembra
importante di quanto Harvey ci trasmette è che dalla scelta non ci si può
sottrarre e che essa va dichiarata e motivata. Aggiungo che mi sembra da tenere
presente anche l’implicita indicazione contenuta in questa ostinata lettura dei
“classici”: che le fonti (quali che siano)
vanno studiate di prima mano. Questi i motivi teorico-metodologici per
cui ritengo che valga la pena di leggere comunque Harvey, poi ognuno avrà
proprie strade nelle loro
diversificazioni.
In realtà l’ultimo libro di Harvey porta il titolo Rebel cities. From the right to the city to
the urban revolution ( London-New York, Verso, 2012) che rivisita i temi
dei suoi studi degli anni ’70. Tuttavia preferisco soffermarmi sul suo lavoro
precedente, sia perché già tradotto in italiano e quindi auspicabilmente più
letto nel nostro paese, sia perché la questione urbana come luogo privilegiato
di rivolte nel tempo presente, forse è più specchio di realtà in parte diverse
da quella italiana. Viceversa L’enigma
del capitale calza perfettamente sulla situazione di lunga crisi/decadenza italica,
soprattutto per il sottotitolo e il
prezzo della sua sopravvivenza. Abitualmente si dice che la traduzione
tradisce l’originale: anche in questo caso la seconda parte del titolo inglese
è and the crisis of capitalism. Ma
per il lettore italiano la libera traduzione di essa mette in risalto il prezzo sociale della
sopravvivenza (non ripresa, rafforzamento o altra simile fata morgana) di
questa formazione economico sociale, almeno nella nostra penisola. Mi permetto
ancora di sottolineare che Harvey negli anni recenti scrive molto e con
coraggio: mettendo a frutto le sue vaste conoscenze, la capacità comunicativa,
la prolungata approfondita riflessione critica, la sua intrinseca qualità di
studioso, scrive sui grandi temi che sconvolgono il pianeta cercando di
trasmettere in modo ampio e insieme rigoroso il proprio patrimonio come viatico
perché altri acquistino o non perdano le motivazioni per spendersi per cambiare
lo stato di cose presenti. L’università dovrebbe essere il luogo deputato per
la costruzione del sapere critico, ma non è detto che sia ancora così: le
attuali operazioni di ingegneria accademica per ponderare la produttività
scientifica utilizzando il pericoloso metodo di applicare misurazioni
quantitative a contenitori qualitativi e localizzativi preselezionati (es.
articolo di dimensioni x in rivista di categoria y localizzata in luogo z
rispetto allo scrivente che lavora in sede w) non è detto che sia proprio ciò che ci vuole per
stimolare ingegno, inventiva, indipendenza creativa, sapere vedere oltre lo
specchio o oltre Matrix. Ripeto una considerazione che so di avere già fatto
altre volte: Gregory Batson ricorda con gratitudine di avere potuto, per un
certo tempo fra le due guerre, usufruire, insieme a quella che allora era sua
moglie, Margared Mead, di una borsa di studio alle Hawai e dintorni per
studiare… quello che voleva . E i frutti, si sa, non sono mancati.
Ma di che cosa dunque parla Harvey ne L’enigma del capitale? Non è un libro che si possa riassumere, né
io intendo fare ciò. È un libro da leggere, studiare, con il quale discutere e
confrontare il proprio campo di ricerca, arrivando probabilmente a conclusioni
diverse. “Questo libro parla del flusso di capitale. Il capitale è la linfa
vitale che scorre nel corpo politico di tutte le società che definiamo
capitalistiche. …È grazie a questo flusso che noi… comperiamo… È attraverso
questo flusso che si genera la ricchezza … Se il flusso si interrompe … si va
incontro a una crisi del capitalismo” (p. 9). L’interrogativo centrale attorno
al quale ruota il saggio di H. è il problema dell’assorbimento delle eccedenze
del capitale, il quale necessita di
riprodursi ad un tasso di incremento
composto del 3%, ciò che porta al determinarsi appunto di eccedenze e a
una incontenibile propensione, e
verificarsi, di crisi . Non è tanto nell’interrogativo proposto che sta, a mio
modo di vedere, lo stimolo alla lettura di Harvey. Ma nel fatto che egli
introduce nella sua analisi in modo continuativo e articolato il ruolo della
categoria spaziale come elemento di
analisi indispensabile. Questo è chiaro in tutti i suoi scritti, certamente in The condition of Postmodernity, del
1990, tradotto con la dizione La crisi
della modernità, per me il suo lavoro al quale più frequentemente si sente
l’esigenza di ritornare. Nel testo del 1990 la categoria che fa da perno è
quella di compressione spazio-temporale, declinata e illuminata attraverso un
vasto lavoro comparativo, in contesti e
momenti diversi. Nel lavoro di un ventennio successivo, la spazialità viene in
qualche modo evidenziata nella sua specificità nel cap. 6 (La geografia del
tutto) e affiancata da una esplicita referenza al rapporto con la base naturale
nel capitolo successivo (Distruzione creatrice sulla terra). Rispetto ad altri
studiosi di ampio respiro con i quali D.H. dialoga a distanza come Eric Hobsbawm de Il secolo breve che se ne è andato proprio in questi giorni (1°
ottobre 2012) o in modo ravvicinato come
Giovanni Arrighi de Il lungo
ventesimo secolo con il quale D.H. ha costruito un’interessante intervista
poco prima della sua morte (19 giugno 2009; “New Left Review”, n. 56, marzo-aprile
2009), egli aggiunge la riflessione, latamente documentata, sulla produzione
sociale dello spazio, attorno alla quale Henri Lefebvre ha scritto pagine che
rimangono di grande spessore e che seguono un cammino concettuale forse più
fecondo di quello, per quanto concerne l’interazione con i quadri ambientali,
della tradizione braudelliana.